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Visualizzazione dei post da aprile, 2016

Ascensione del Signore, ufficio delle letture

Per l'Ascensione LO propone i nn. 1 (completo) e 2 (parziale) di un sermone di Agostino (263/A). Riporto la conclusione del n. 2, omessa da LO, che completa l'argomentazione (traduzione NBA). Il n. 3 vuole poi rispondere a una obiezione dei Manichei, tesa a mostrare come Gesù non poteva essere asceso con il corpo. Il n. 4 è una digressione sul significato del numero 40. Dai Discorsi di sant'Agostino, vescovo (sull'Ascensione del Signore, ed. A. Mai 98,1-2; PLS 2,494-495) Ascensione del Signore (Discorso 263/A). 1. Oggi il Signore nostro Gesù Cristo è asceso al cielo: salga con lui anche il nostro cuore. Ascoltiamo le parole dell'Apostolo: "Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose del cielo, dov'è Cristo, assiso alla destra di Dio: aspirate alle cose di lassù e non a quelle della terra" (Col 3,1-2). Come infatti egli è asceso al cielo ma non si è allontanato da noi, così anche noi siamo già lassù con lui, benché ancora non si sia realizzat

VI domenica di pasqua, ufficio delle letture

Il commento di Cirillo Alessandrino alla 2Cor è andato perso, come altre sue opere esegetiche. Ce ne sono arrivati soltanto alcuni frammenti attraverso le "catene", ovvero quei testi nei quali per ogni passo di un dato libro biblico si riportavano commenti di diversi autori. Per la VI domenica del tempo pasquale ci è proposto uno di questi frammenti, dove Cirillo commenta 2Cor 5,16-18: «Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.»  «Alla maniera umana»: così la versione CEI traduce κατὰ σάρκα, letteralmente «secondo la carne», in maniera carnale. Gran parte del discorso ruota attorno a questo, e Cirillo spiega come per «carne» intenda

Enrico IV

"Pazzia", parola vecchia, generica e maltrattata: tutto quanto esce dalle proprie visuali non è stato - ed è tuttora - etichettato come tale? Gesù stesso, e gli apostoli, non sono stati ritenuti pazzi? Più modernamente e tecnicamente diciamo: "malattia mentale". Rimane il fatto che pone da sempre grandi sfide. Non soltanto quelle legate alla possibilità di una terapia (questioni già ardue e spesso insolute - il personaggio del dottore "alienista" non fa qui gran figura), ma anche quelle che riguardano non soltanto i pazzi e chi li voglia curare, ma gli uomini tutti indistintamente. Se ogni anomalia reca implicita la domanda sulla regola, la pazzia pone la questione della normalità, la quale implica a sua volta almeno tre problemi enormi: la questione della mente (quando funziona bene?); la questione della realtà e della sua percezione (qual è la realtà?); la questione dell'identità (chi sono io? chi sei tu?). Sono le questioni intorno alle quali ruota

V domenica di pasqua, ufficio delle letture

Il sermone 53 di Massimo di Torino (così numerato in CCL, mentre in PL 57 è il n. 57) è centrato sul v. 24 del salmo 118 (117 nella Vulgata , e nella liturgia), salmo pasquale per eccellenza: Haec dies, quam fecit Dominus: exsultemus et laetemur in ea («questo è il giorno che ha fatto il Signore, rallegriamoci ed esultiamo in esso»). Il giorno fatto dal Signore è la domenica della risurrezione. LO omette interamente il n. 3, che parla del sole, e questo non disturba. Al n. 2 è tagliata l'obiezione che dà origine a un lungo sviluppo: questo 'giorno' è terreno e pertanto non può riguardare gli inferi né il cielo. Con tre citazioni (Gv 1,9; Is 9,2; Sal 89,30) Massimo mostra invece come tutte e tre le dimensioni - cielo, terra, sotterra - siano illuminate da questa luce senza tramonto, e si sofferma in particolare a sviluppare l'idea di Cristo come «giorno del cielo». LO taglia le tre citazioni, nonché la successiva, di Sal 19,3 («il giorno al giorno nel trasmette la paro

Medea

Medea , di Seneca, regia di Paolo Magelli, Fabbricone, Prato, 5-10 aprile 2016. Bello spettacolo, questa Medea di Magelli, e di grandissima attualità per questo tempo segnato da disgregazione familiare e troppo frequenti cronache di (ex) coniugi e figli uccisi, tempo di figli voluti ad ogni costo e figli rifiutati; di rapporti difficili tra maschile e femminile, tra popoli diversi, vicini e lontani, di mare che a un tempo unisce e separa, dà morte e dà vita. Mito inquietante e poliedrico, che ci trascina nelle molte facce dell'animo umano, di noi stessi; come tutti i miti che la mitologia classica ci ha consegnato, ma forse più di altri, come mostra la quantità di confronti, commenti e riletture che ha avuto. A dire il vero, la rilettura di Seneca risulta in ombra, o anche francamente sbeffeggiata. Non c'era da aspettarsi, da questo punto di vista, molto di diverso. Seneca è fondamentalmente un filosofo, e particolarmente un filosofo morale, ovvero uno che si pone la domanda

IV domenica di pasqua, ufficio delle letture

Per questa domenica LO ci propone il commento di Gregorio Magno a Gv 10,11-16 ( Homiliae in Evangelia 14). La prima parte dell'omelia, omessa, parla dei pastori e dei mercenari, mentre la seconda, con tagli segnalati dalle parentesi quadre, delle pecore. La traduzione italiana è di Ovidio Lari, EP 1968, che proprio in quell'anno fu nominato vescovo di Aosta. Dalle Omelie sui Vangeli di san Gregorio Magno, papa (Om. 14,3-6; PL 76,1129-1130) 3. (...) [Ma il Signore, dopo aver denunciato le colpe del falso pastore, ci presenta ancora il modello, quasi lo stampo nel quale noi dobbiamo formarci; dice infatti:] «Io sono il buon Pastore». Poi aggiunge: «Io conosco - cioè amo - le mie pecore, e le mie pecore conoscono me». E' come se dicesse: le anime che mi amano, mi obbediscono, perché chi non ama la verità non la conosce ancora. 4. Ora che avete udito, fratelli carissimi, il pericolo in cui siamo noi pastori d'anime, pensate a scoprire nelle parole del Signore anche