Medea

Medea, di Seneca, regia di Paolo Magelli, Fabbricone, Prato, 5-10 aprile 2016.

Bello spettacolo, questa Medea di Magelli, e di grandissima attualità per questo tempo segnato da disgregazione familiare e troppo frequenti cronache di (ex) coniugi e figli uccisi, tempo di figli voluti ad ogni costo e figli rifiutati; di rapporti difficili tra maschile e femminile, tra popoli diversi, vicini e lontani, di mare che a un tempo unisce e separa, dà morte e dà vita. Mito inquietante e poliedrico, che ci trascina nelle molte facce dell'animo umano, di noi stessi; come tutti i miti che la mitologia classica ci ha consegnato, ma forse più di altri, come mostra la quantità di confronti, commenti e riletture che ha avuto. A dire il vero, la rilettura di Seneca risulta in ombra, o anche francamente sbeffeggiata. Non c'era da aspettarsi, da questo punto di vista, molto di diverso. Seneca è fondamentalmente un filosofo, e particolarmente un filosofo morale, ovvero uno che si pone la domanda sul bene e il male. Oggi si è portati quasi fatalmente a vedere la morale come elemento sovrastrutturale, fittizio, inautentico, magari creato dal potere a propria legittimazione. Di Seneca rimane l'impianto narrativo, certo suggestivo, esaltato dalla felice scenografia e dalla forza della musica. Altre letture vengono sovrapposte - o proposte, il mito è inesauribile - mediante tocchi di autori quali W. Reich e H. Müller, onde far emergere Medea dalla polvere dei libri e delle valutazioni morali. Suggestiva la scena conclusiva, dove il coro ricopre la protagonista con le ceneri del giudizio moralistico (a proposito di coro, i cui componenti nell'elenco dei personaggi sono detti "corifei": ma il corifeo non è il capo del coro? E i componenti non sono i "coreuti"?). Lo spettacolo, retto su una magistrale interpretazione di Valentina Banci, si vuole epifania di altre letture: una lettura politica (Medea ribelle al potere), suggerita anche dalla scelta di alcuni costumi primonovecenteschi (il periodo, caro a Magelli, dell'incubazione dei poteri totalitari) e soprattutto una lettura psicologica. La cosa non fa meraviglia, se è vero che la psicologia ha sostituito la riflessione morale e si presenta sempre di più - sotto mentite spoglie - con i caratteri della (nuova) religione: non si dimentichi che il mito nasce in connessione con la dimensione religiosa. Elemento importante appare il rapporto irrisolto tra Helios e Ecate, ovvero Sole (dalla cui stirpe Medea discende) e Luna (con la quale come maga ha un legame particolare), tra dimensione diurna e notturna. Qui sta il conflitto che infine esplode nella paradossale ma irrecusabile contiguità tra amore e odio. L'amore che produce morte è il più sconvolgente esempio di eterogenesi dei fini e l'amore che si tramuta in odio pone il più arduo dei problemi (morali). Viene in mente un'altra storia nella quale amore e morte sono legati, ma in tutt'altro rapporto: quella del Cristo crocifisso e risorto, che libera l'amore umano da ogni veleno di morte e asservimento alla pulsione distruttiva. E meno male che Gesù c'è.

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