Filautia, piacere e dolore nella Questione 58 a Talassio di S. Massimo il Confessore

Riproduco qui un mio vecchio articolo, che ritengo molto interessante in quanto analizza un aspetto significativo del pensiero di S. Massimo il Confessore. L'indicazione della pagina, sia per il testo che per le note, riguarda l'edizione a stampa, in modo che - volendo - si possa citare come dall'originale.
L'articolo, che reca in appendice una mia traduzione del testo al quale si riferisce, è apparso su Prometheus, XIII/1 (1987), alle pp. 72-90.

Sommario
1. La dottrina della QT 58.
2. La condizione di Adamo nell'Eden.
3. La traiettoria della creatura spirituale.
4. La scelta filautica e la ricerca del piacere sensibile.
5. L'esperienza del dolore e il suo significato.
6. Il dolore dell'anima esito della gioia sensibile.
7. La gioia dell'anima causa ed esito del dolore sensibile.
Appendice: QUESTIONE 58 A TALASSIO (PG 90, 592D-600B)
Note

Marco Pratesi
FILAUTIA, PIACERE E DOLORE NELLA QUESTIONE 58 A TALASSIO DI S. MASSIMO IL CONFESSORE *

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1. La dottrina della QT 58.
Nell'ambito della dottrina ascetica Massimo il Confessore si sofferma sull'analisi circa l'espenenza del piacere e del dolore, comune a tutta l'umanità (1). All'interno di questa dottrina, che pure verrà illustrata, il presente contributo si propone di chiarire un particolare problema, che rischia di generare equivoci e diffidenza nel lettore moderno: si tratta, per usare la terminologia di Massimo, della dottrina sul rapporto tra dolore/piacere della sensibilità (2), quale è esposta soprattutto nella QT 58

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(PG 90, 592D-600B), dottrina alquanto complessa che merita di essere chiarita (3).
Interrogato a proposito di 1Pt 1,6 ("Esultate, anche se è necessario che ora siate un po' afflitti da varie tentazioni"), Massimo spiega in che modo il cristiano possa essere al tempo stesso nella gioia e nella afflizione (4): la gioia nell'anima e l'afflizione nella sensibilità. Secondo lui, proprio l'afflizione sensibile è la causa e il risultato della gioia spirituale, resa possibile dal "distacco ragionato" dell'anima dalla sensibilità (596B). In questa condizione l'intelletto è capace di distinguere l'aspetto esteriore delle realtà create dalla loro "ragione" (λόγος), il loro significato in rapporto a Dio e alla sua economia (5), ed è in grado di contemplarlo. L'anima ha di mira le realtà spirituali che per natura le sono destinate, e poiché non si preoccupa di procurare piacere alla sensibilità, quest'ultima viene a trovarsi nel dolore. Al contrario, quando l'intelletto rinuncia alla sua operazione naturale, la contemplazione spirituale delle "ragioni", si lega con una "relazione irrazionale" (ἀλόγιστος σχέσις, ibid.) alla sensibilità, ricercando i modi e i mezzi per godere del piacere sensibile. Esito inevitabile (τέλος, συμπέρασμα: 593A) del piacere della sensibilità è il dolore dell'anima,

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flagellata senza requie dalla coscienza.
Si ha l'impressione di uno spiccato dualismo di tipo evagriano, remotamente platonico, che vede negativamente la dimensione sensibile ponendo un rigido aut aut tra materialità e spiritualità. Eppure, data la presenza di una costante tendenza in Massimo alla correzione in senso antidualista della teologia di Evagrio (6), e visto che egli caratterizza la sensibilità come elemento qualificante della vocazione umana di mediazione tra il mondo sensibile e quello spirituale (7), occorre precisare il significato della sua dottrina circa il piacere e il dolore, mostrandola in coerenza con il pensiero antidualista del Confessore, mediante un approccio teso essenzialmente a chiarire Massimo con Massimo con il fine di cogliere il senso della sua proposta ascetica. Di grande importanza sarà l'accostamento con il grande Prologo delle QT, che funge da quadro di riferimento per l'intera opera, e in particolare lo studio della sua concezione dello stato prelapsario e del peccato di Adamo.

2. La condizione di Adamo nell'Eden.
Massimo propone un'interpretazione del biblico «albero della conoscenza». Scrive:
"La creazione visibile è chiamata «albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17), poiché essa possiede sia le ragioni spirituali che nutrono l'intelletto, sia una naturale capacità di dilettare la sensibilità e distrarre l'intelletto. Contemplata spiritualmente essa procura la conoscenza del bene; presa materialmente, del male. In effetti si fa maestra di passioni a coloro che ne partecipano materialmente, introducendo in essi l'oblio delle cose divine. Perciò Dio ha posto il divieto, differendone la partecipazione per un poco, perché prima l'uomo, come era più giusto, per mezzo della grazia conoscesse Dio come propria causa, e l'immortalità per grazia, e cosi fosse consolidato nella ἀπάθεια (8) e nella immutabilità e, una volta divenuto come Dio in forza della divinizzazione, potesse contemplare senza danno e con sicurezza le creature in comunione con Dio, e ne ricevesse la conoscenza come un dio e non come un uomo, avendo, per grazia, la stessa sapiente

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consapevolezza che Dio ha degli esseri, in virtù della trasformazione divinizzante del suo spirito e della sua sensibilità" (QT Prol., PG 90, 257C-260A) (9).
Nel piano originario di Dio è previsto un differimento (ἀναβάλλειν), un intervallo ("prima": πρότερον), uno iato tra la partecipazione (μετάληψις) alla grazia, mediante la quale l'uomo avrebbe scoperto Dio come perenne sorgente della sua vita, e la partecipazione alla creazione sensibile, mediante la quale avrebbe scoperto le ragioni delle creature, cioè il loro significato nel piano di Dio. In questo modo, il rapporto dell'uomo con la creazione si sarebbe sviluppato a partire dalla precedente e fondante percezione di Dio come datore di vita. L'intervallo tra i due tipi di partecipazione non è quindi da intendersi tanto come temporale (il che avrebbe comportato una temporanea esclusione dell'uomo dal rapporto con tutta la creazione sensibile), quanto come logico: l'uso della creazione avrebbe dato la vita soltanto se l'uomo vi si fosse rivolto con la piena consapevolezza che la vita gli era assicurata non da quella partecipazione (illusione caratteristica dello stato di peccato), ma da Dio che, in modo assolutamente gratuito, aveva creato e donato l'immortalità. Soltanto a questa condizione l'uso della creazione avrebbe potuto raggiungere lo scopo previsto: rivelare il senso profondo di ogni creatura in rapporto a Dio.
Con la creazione Dio, iniziatore di un movimento di libero dono, di grazia (χάρις), invita l'uomo a prolungarlo a sua volta mediante un consenso che sia allo stesso modo libero dono. Proprio in questa circolazione di mutua gratuità va individuato il senso dell'uomo e della creazione. Ma essa richiede, proprio in quanto tale, che i due interlocutori siano in certo modo "alla pari", che il loro consenso sia interamente libero, non necessitato. Il semplice "essere" che si acquista con la creazione è un essere rudimentale, imperfetto, "inutilizzabile" (ἄχρηστον, Amb., PG 91, 1116B) che per diventare essere in senso forte ("essere sempre") deve passare per l’"essere bene", il quale è per sua natura dipendente dalla libera volontà (γνώμη) dell'uomo (10). "Per l'uomo creato, non era possibile altrimenti dimostrarsi figlio di Dio e dio per mezzo della divinizzazione per grazia se non essendo prima generato allo spirito in conformità ad una sua libera decisione, in virtù di quella sovrana potenza che ha in sé il principio del suo movimento (αὐτοκίνητος καὶ ἀδέσποτος δύναμις) insita in lui per natura" (Amb., PG 91, 1345D). Mediante la sua libera scelta l'uomo,

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creato a immagine di Dio, diventa a somiglianza di Dio (11), perché sceglie di agire come Dio, cioè di donarsi liberamente: è una affinità che nasce dalla sua scelta di amore (αὐθαίρετος συγγένεια διὰ τῆς ἀγάπης, Amb., PG 91, 1353D), che ha come condizione la libertà. Il recupero da parte di Massimo della distinzione tra immagine (naturale e inamissibile) e somiglianza (volontaria e amissibile) che era stata sviluppata soprattutto da Origene, mentre risultava in ombra nella riflessione dei Cappadoci (12), ne mostra l'importanza nella sua teologia. Questa distinzione getta luce anche sul problema che ci siamo posti.

3. La traiettoria della creatura spirituale.
Nell'intento di confutare la teoria origenista sulla condizione originaria degli esseri spirituali e sulla formazione del mondo sensibile (13), Massimo stabilisce che è in sé contraddittoria la possibilità, per un essere creato, di trovare la sua piena realizzazione nella sua origine stessa, che l'"essere" possa coincidere con l'"essere sempre". Questo significherebbe che tale essere è fine (τέλος) di se stesso, non è finalizzato ad altro. Ma tale essere dovrebbe avere se stesso come causa, essere senza inizio e senza movimento (Amb., PG 91, 1072BC), in breve, essere Dio. Si deve dunque postulare una distanza (διάστασις, διάστημα) che la creatura deve coprire per giungere al suo fine e alla sua definitiva quiete. Nello stadio di movimento (κίνησις) la creatura è appunto posta di fronte alla libera scelta di imitare ο meno Dio nel suo modo di essere. Soltanto da una risposta affermativa da parte della creatura, il suo "essere bene", è reso possibile l'"essere sempre". Solo allora la creatura farà l'esperienza (πείρα) dell'Immobile e perciò si fermerà (QT 60, PG 90, 621C): è la escatologica "percezione di Dio" (αἴσθησις τοῦ Θεοῦ: ibid. 624A) che esclude la possibilità di ogni ulteriore allontanamento.
Vi è al contrario un aspetto ben preciso nel quale la condizione originaria dell'uomo differisce da quella escatologica. Interrogato sul significato dei due alberi dell'Eden, Massimo ritorna nella QT 43 sul problema già affrontato nel prologo e dà un'altra interpretazione, molto vicina a quella di Gregorio Nisseno, secondo la quale l'albero della vita rappresenta l'intelletto, e quello della conoscenza del bene e del male la sensibilità (14). Apprendiamo allora che la condizione di Adamo comporta la coesistenza in

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lui, anteriormente al peccato, di due diverse capacità di discernimento (δυνάμεις διακριτικαί) che corrispondono a questi due elementi.

"Da un lato, l'intelletto ha la capacità di discernere le cose spirituali da quelle sensibili, le cose temporali da quelle eterne; ο piuttosto, essendo la capacità di discernimento propria dell'anima, la induce ad aderire alle une e a sollevarsi al di sopra delle altre. Dall'altro, la sensibilità ha la capacità di discernere il piacere dal dolore del corpo; ο piuttosto, essendo la capacità di discernimento propria di corpi viventi e sensibili, induce ad acquistarsi il piacere e a respingere il dolore" (QT 43, PG 90, 412D).

Adamo, dunque, ha la simultanea percezione di due scale di valori non coincidenti, e deve necessariamente scegliere di dare la preminenza ad una di esse. Egli è chiamato a non scegliere in base all'evidenza sensibile: proprio in ciò consisterà il suo "essere bene", dal quale dipenderà il suo "essere sempre". Ecco il senso del differimento imposto da Dio: consolidare l'uomo nella preferenza accordata alla scala valutativa propria dell'intelletto, consolidamento che ha per effetto la trasformazione sia dello stesso intelletto, che viene a possedere la medesima conoscenza che Dio ha degli esseri; che della sensibilità, per la quale la naturale capacità delle cose sensibili a dilettare la sensibilità non provoca più una distrazione dell'intelletto dalle "ragioni" degli esseri. Adamo infatti si trova in una condizione che ammette il mutamento (τροπή), cioè la capacità ontologica della creatura di muoversi in modo difettoso nei confronti di Dio (15). Certo, egli è creato senza passioni, ma tale capacità ontologica non è per questo abolita. La sua ἀπάθεια ha bisogno di un consolidamento (QT Prol., PG 90, 257D) che ha come effetto l'immutabilità (ἀτρεψία), nella quale culmina la libera imitazione di Dio che, supremamente libero è anche nello stesso tempo supremamente immutabile (ἂτρεπτος) (16). A questo punto la sensibilità non corre più il pericolo di assolutizzarsi e di rinchiudersi in se stessa, essendo essa stessa trasformata. Il rapporto dell'uomo con il mondo sensibile perde la capacità di distrarre l'intelletto dal suo oggetto naturale, Dio e le "ragioni" degli esseri. L'uomo, essere spirituale e sensibile, realizza allora la sua specifica vocazione di mediatore tra la creazione spirituale e quella sensibile, vocazione dalla quale egli può lasciarsi distogliere proprio in virtù di quella possibilità di mutamento cui è soggetto, radicata in quella duplicità di criteri valutativi che trova in sé. L'eccellenza dello stato originario non potrà quindi essere intesa in modo tale da eliminare questa possibilità. Quando Massimo sottolinea che Adamo non era sottoposto all'inganno della fantasia del piacere, che non aveva bisogno delle arti per

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vivere bene e che possedeva una conoscenza diretta di Dio, egli intende affermare che la sua scelta di peccato non ha potuto nascere da un inganno, da uno stato di bisogno, ο da una insufficiente conoscenza, perché "il primo uomo non aveva niente che, frapposto tra lui e Dio, ne ostacolasse la conoscenza e impedisse la volontaria affinità attraverso l'amore" (Amb., PG 91, 1353D). Che cosa di fatto, per Massimo, il peccato ha frapposto tra Dio e l'uomo? L'ignoranza, in quanto oblio di Dio iniziatore di quel movimento di "grazia" (χάρις) che l'uomo è chiamato ad imitare mediante la sua libera scelta. Tale ignoranza interrompe la circolazione dell'amore e innesca i processi di corruzione. Infatti, l'evidenza spirituale di Dio come donatore di vita è il presupposto necessario della continuazione del dialogo tra Dio e l'uomo iniziato con la creazione: tale evidenza non è sensibile, non abolisce la differenziazione dei due criteri di discernimento, e perciò stesso richiede in modo non necessitato il libero assenso dell'uomo. Ma, se non si trattò di un errore, di ignoranza, che cosa portò l'uomo al suo rifiuto di Dio? Per dare una risposta a tale problema, Origene aveva elaborato la sua teoria della "sazietà" (κόρος): gli esseri spirituali, sazi dell'esperienza di Dio, avrebbero voluto fare l'esperienza del male. Massimo confuta questa teoria e individua nella capacità di autodeterminarsi propria dell'uomo la forza che ha prodotto la scelta (17). L'ignoranza di Dio, le difficoltà materiali, il fascino irresistibile del piacere, sono il prodotto e non la causa di tale scelta.

4. La scelta filautica e la ricerca del piacere sensibile.
L'uomo ha scelto di basarsi sul "discernimento costitutivo dei corpi, per il quale si attacca al piacere come bene e respinge il dolore come male" (QT 43, PG 90, 413A). La scelta ha determinato il sorgere delle passioni e della corruzione. "Così (il primo uomo), divenuto trasgressore e ignorante di Dio, mescolando l'intera sua capacità spirituale all'intera sua sensibilità, introdusse la conoscenza composta e perniciosa delle realtà sensibili, la quale produce la passione" (QT Prol., PG 90, 253C). L'uomo rivolge la sua capacità spirituale di entrare in comunione con il suo Creatore, la relazionalità insita nella sua natura, al mondo: "Dio, che ha creato la natura umana, non creò insieme ad essa il piacere e il dolore sensibili; ma una potenza capace di piacere spirituale, mediante la quale potesse godere ineffabilmente di Lui. Questa potenza, cioè il naturale desiderio

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dell'intelletto verso Dio, il primo uomo, non appena giunto all'esistenza, l'ha rivolta alla sensibilità, rendendo così, per mezzo della sensibilità, operante contro natura, nel suo primo movimento, il piacere sensibile" (QT 63, PG 90, 628AB).
Pertanto l'uomo è condotto ineluttabilmente a restare impigliato nella mortale dialettica del piacere e del dolore. Infatti, dal momento in cui decide di giocare tutta la propria vita nell'ambito del mondo materiale, crede di scoprire nel suo corpo il principio della sua vita, e nella partecipazione (μετάληψις) alle cose materiali la possibilità della sussistenza del corpo (cfr. QT Prol., PG 90, 257AB). Questo orientamento verso il corpo si definisce con il termine φιλαυτία, che è "affetto irrazionale verso il corpo" (De Car. 3.57, PG 90, 1033C) (19). Dal momento che il corpo è investito dell'intera carica del desiderio spirituale umano, la partecipazione alle cose materiali, che ne sono il sostegno, non sarà più uno strumento ma un fine; non più un uso, ma un abuso.
Il corpo diviene allora "carne", cioè organo della filautia. Nella sua accezione deteriore (20) il termine "carne" non indica la realtà materiale dell'uomo in sé, ma in quanto funge da supporto ad un progetto di autonomia che è perseguito dall'intelletto. Nella carne, quindi, si distinguono due elementi: la passione e la sensibilità. In virtù della passione essa tende ad autodivinizzarsi, convogliando la capacità spirituale dell'uomo nella sola dimensione sensibile; in virtù della sensibilità essa fissa la sua attenzione sulle realtà sensibili, rendendo così possibile il sussistere dell'illusione (cfr. Amb., PG 91, 1112AB). Ma perché la precaria illusione della riuscita dell'autodivinizzazione mediante il sensibile si regga, occorre che il modo e la forma dell'attività sensitiva (τρόπος, εἶδος αἰσθήσεως) sia corrispondente, si armonizzi con il desiderio irrazionale (κατ' ἐπιθυμίαν ἄλογον): questo modo è appunto il piacere (cfr. ibid. 1112C). Poiché la sensazione del piacere è la condizione necessaria alla riuscita del progetto filautico, l'uomo si deve sottomettere alla legge della carne, che è appunto il piacere (cfr. QT 65, PG 90, 737C; De Car. 3.10, PG 90, 1020B). "Quanto più l'uomo curava con sollecitudine l'amore per la filautia, tanto più si

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sforzava di escogitare i molti modi di dare sussistenza al piacere, che è prodotto e fine della filautia" (QT Prol., PG 90, 253D). Il piacere sensibile è il mezzo con il quale si coltiva la filautia (ibid. 256B); di conseguenza, tutto lo sforzo dell'uomo è finalizzato ad "avere la filautia unita al solo piacere", appunto perché solo sotto la "presa" (ἐπικράτεια) del piacere il progetto filautico sembra avere successo (cfr. ibid. 256A). Soltanto quando la sensibilità "si espande" (QT 58, PG 90, 537D) (21), "si allarga" (QT Prol., PG 90, 257A) per effetto di una piacevole sensazione, soltanto allora l'intelletto, rinunciando a esercitarsi sul suo oggetto naturale, il mondo intelligibile, può in un certo senso assimilarsi alla sensibilità e identificarvisi: l'esperienza del piacere non è pertanto semplice sensazione piacevole, ma innaturale connubio, relazione irragionevole della potenza spirituale con la sensibilità: "Se... (l'intelletto) resta impigliato nella esteriorità delle realtà visibili ritenendo che la sensazione a sé congiunta sia la sua operazione naturale, decade dalle realtà intelligibili secondo natura, e afferra — contro natura — con entrambe le mani, come dice il proverbio, i corpi. ... Da un lato l'intelletto diviene generatore dell'afflizione dell'anima...; dall'altro produce con ogni evidenza il piacere della sensibilità, ungendola mediante l'invenzione dei modi favorevoli alla carne" (QT 58, PG 90, 597A). L'intelletto giunge alle realtà intelligibili per mezzo di quelle sensibili, e quindi ha sempre congiunta a sé la sensibilità, il che è naturale. Ma quando giunge a vedere nella sensazione la sua operazione naturale, allora "afferra i corpi con entrambe le mani", si getta a corpo morto nell'ambito del mondo materiale come ambito della sua realizzazione globale. Di conseguenza, pone la sua capacità inventiva, la sua creatività, al servizio della sensibilità, in modo che, mediante il suo piacere sia corroborato il progetto filautico. La scelta di fondo a favore della filautia si traduce e si attua in una serie di scelte particolari, di trovate, di progetti (ἐπίνοιαι) volti a procurarsi e a mantenere concretamente il piacere sensibile. In questo "escogitare i molti modi di dare sussistenza al piacere" sta specificamente la corruzione della parte razionale dell'anima (QT 50, PG 90, 472BC).

5. L'esperienza del dolore e il suo significato.
Il tentativo di procurarsi un piacere puro fallisce, perché il dolore è sempre inscindibilmente connesso con il piacere (cfr. QT Prol., PG 90, 256A). La passione, infatti, nasce da un uso contro natura delle potenze dell'anima, da un abuso (cfr. Ep. 2, PG 91, 397A), per il quale esse si inchiodano alla realtà sensibile mediante una "relazione irragionevole"

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(ἀλόγιστος σχέσις: QT 58, PG 90, 596B) (22), un falso rapporto con la percezione sensibile e il suo oggetto (cfr. QT 16, PG 90, 301C). In forza di tale rapporto l'intelletto, invece di contemplare la ragioni spirituali degli esseri, si limita al loro aspetto esteriore, all'apparenza (σχήμα, ἐπιφάνεια). In questo modo lo stato abituale (ἕξις) delle potenze non è più quello naturale, ma diviene difettoso, viene a mancare della capacità di giungere al suo naturale oggetto, anche al di fuori dell'operazione attuale (cfr. QT 58, PG 90, 593A). È lo sprofondare nell'oblio. Ma poiché l'operazione naturale dell'anima è la contemplazione delle ragioni spirituali e quindi di Dio, solo in tale operazione essa può trovare il suo vero piacere. Dal momento che la brama passionale del piacere sensibile comporta necessariamente la rinuncia a questa naturale operazione (cfr. ibid. 596D), l'anima viene a trovarsi priva di ogni suo vero piacere, cioè nel dolore. Rinuncia ad occuparsi del suo oggetto naturale per muoversi verso qualcosa di inesistente, e perciò stesso le sue facoltà si corrompono (cfr. Amb., PG 91, 1116BC). Accade come se si mettessero in moto tutte le attività proprie della digestione senza che in realtà vi sia qualcosa di realmente ingerito. E questo esattamente il processo della passione che è "moto della potenza verso ciò che non è secondo natura e non esiste" (QT 58, PG 90, 593AB) (23). La radicale inadeguatezza dell'oggetto sensibile rispetto all'operazione dell'anima, porta a un inevitabile fallimento ogni tentativo di separazione del piacere dal dolore.
Tuttavia, anche se l'uomo continua a subire i colpi dell'incessante flagello della coscienza, che denuncia l'assurdità del tentativo filautico, tale coscienza è relegata nelle profondità dell'anima, e per lo più non è evidente, specialmente quando il piacere è preponderante (cfr. ibid. 592D). L'uomo è oramai insensibile a questo tipo di dolore, non è più capace di accorgersi della sua rovina spirituale (cfr. QT Prol., PG 90, 260C). Ben presto però, ineluttabilmente, egli fa l'esperienza del fallimento evidente del suo tentativo: dal momento che la creazione sensibile è corruttibile, mobile, soggetta alla disgregazione (σκεδαστή, ibid. 260BC), essa non può fungere da base sufficientemente solida del progetto filautico. Così l'anima si pone nella condizione di un continuo "trasformarsi insieme" (συνεξαλλοιοῦν) a ciò che per natura è instabile, scorre come la corrente di un fiume (cfr. Or. Dom. Exp., PG 90, 889A), e si rivela ben presto come fallacia (ἀποτυχία) a motivo del suo alterno continuo mutare (cfr. Theol. Oec, 2.95. PG

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1169D) (24). Nel tentativo di una vita in simbiosi (συμβίωσις, QT Prol., PG 90, 260B) ininterrotta con il piacere, si condanna a un ininterrotto insuccesso: senza accorgersene, mentre l'uomo persegue l'oggetto del suo desiderio, il piacere, coltiva ciò che respinge, il dolore, che ad esso infallibilmente segue (cfr. ibid. 256A; 260C).
Il dolore connesso con la scelta filautica è quindi in primo luogo dolore dell'anima, privata della sua naturale operazione; è in secondo luogo un dolore che investe la sfera sensibile, il rapporto dell'anima con il corpo e, mediante esso, con la creazione. Il progetto filautico è così aggredito proprio in quel supporto che rende possibile la sua esistenza. È per questo motivo che al piacere "colui che si preoccupa della nostra salvezza secondo la sua provvidenza, pose accanto come forza vendicatrice il dolore. In esso, con sapienza, la legge della morte fu radicata nella natura del corpo, ponendo un limite (περιορίζων) al folle desiderio dell'intelletto, mosso contro natura verso le cose sensibili. Quindi, attraverso il piacere entrato nella natura irrazionalmente, entrò a sua volta il dolore secondo ragione, che elimina il piacere contro natura attraverso molte sofferenze, nelle quali e dalle quali è la morte" (QT 61, PG 90, 628B).
La scelta filautica dell'uomo introduce dunque la corruzione, la legge della morte nella creazione sensibile: "La libera decisione della ragione secondo natura di Adamo, essendosi corrotta precedentemente, coinvolse nella corruzione la natura, che perse la grazia dell'impassibilità. Ecco il peccato: un primo e ben reprensibile peccato, la caduta della libera decisione dal bene verso il male; un secondo peccato causato dal primo, la irreprensibile alterazione della natura dalla incorruttibilità alla corruzione" (QT 42, PG 90, 405C).
Il "peccato della natura" è l'assoggettamento della creazione al peccato e alla morte. Esso conduce a un evidente fallimento l'assurdo progetto dell'uomo, denunciandone in tal modo l'intrinseca contraddittorietà: è la biblica espulsione dal giardino dell'Eden. "La frase «Ora egli non stenda più la mano, non prenda dell'albero della vita e viva per sempre» (Gen 3,22), a quanto pare, opera provvidenzialmente la concreta divisione di ciò che non può essere mescolato, perché il male non diventi immortale, salvaguardato dalla partecipazione al bene. Infatti, colui che ha creato l'uomo, vuole per lo stesso uomo che, nella relazione, la sua conoscenza di tali cose opposte sia incommista" (QT 44, PG 90, 417A). L'assurdità del tentativo di Adamo si rivela nel suo sforzo di tenere insieme male e bene, vita e morte, cose radicalmente inconciliabili (ἄμικτα). Al contrario. Dio esige che l'uomo le mantenga ben distinte nella sua relazione con il mondo. Altrimenti farà ben

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presto l'esperienza di quella "conoscenza mista" ο "composta" (cioè l'esperienza del dolore inscindibilmente legato al piacere) (cfr. QT Prol., PG 90, 260AB) che è all'origine delle varie passioni, in quanto modi di trovare il piacere, ο di fuggire il dolore, ο di fare le due cose insieme (="malizia mista": ibid. 256B) (25). Sul piano della coscienza dell'uomo decaduto, il "peccato della natura" ha lo scopo di far conoscere all'uomo, pur accecato e narcotizzato, la gravità e l'assurdità del peccato, mediante l'esperienza delle sue conseguenze. Esso impedisce una fissazione definitiva nell'illusione e offre un avvertimento e uno stimolo alla conversione.
L'assoggettamento alla corruzione ha quindi un duplice senso, espresso dal verbo περιορίζειν ("circoscrivere", "porre un limite", "delimitare": QT 61, PG 90, 628B): sul piano ontologico, porre un limite invalicabile oltre il quale il progetto filautico si sfascia; sul piano della coscienza umana, delimitare, disegnare i contorni, indicare l'estensione e la gravità della follia umana. Per questo la morte e il dolore che conseguono al piacere contro natura sono del tutto conformi alla ragione e secondo una sapiente provvidenza (ibid.); e per questo sul "peccato della natura" non c'è niente da ridire, è "irreprensibile" (ἀδιάβλητος, QT 42, PG 90, 405C).

6. Il dolore dell'anima esito della gioia sensibile.
Se il piacere della sensibilità ha come condizione imprescindibile l'operazione contro natura dell'anima, che rinuncia ai suoi naturali oggetti e rivolge la propria capacità spirituale alla materia, accordando la preferenza all'evidenza sensibile rispetto a quella spirituale, inevitabile è il dolore dell'anima. Inoltre, da un lato ne segue l'incessante flagello della coscienza, dal momento che l'uomo sa e non può ignorare il fatto che tale rinuncia è contro natura (26); dall'altro, l'esperienza dolorosa di mutare e corrompersi insieme a ciò che viene amato passionalmente. In sintesi, il dolore dell'anima consiste a) nella rinuncia contro natura b) nel flagello della coscienza c) nel corrompersi insieme. Ora, il piacere sensibile non viene detto causa del dolore dell'anima (come avrebbe di per sé richiesto il parallelismo con il piacere dell'anima, detto appunto causa del dolore sensibile), perché non è il piacere sensibile che, da solo e in quanto tale, opera il dolore spirituale. Al

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contrario, all'origine di tale dolore sta il movimento della potenza spirituale verso ciò che non è secondo natura e non ha consistenza. Esso non nasce dalla sensibilità in sé, ma dalla irragionevole relazione dell'anima con essa. Non vi è pertanto alcun dualismo. È l'azione dell'intelletto che qualifica moralmente l'attività sensibile, in sé perfettamente neutra. Per l'uomo, volontariamente annegatosi nell'ignoranza di Dio, il piacere sensibile si carica di tutte le aspettative spirituali e fa da supporto al progetto filautico. Ecco allora la ricerca del piacere per il piacere: tale è il senso dell'espressione "piacere volontario" (ἡδονὴ γνωμική QT 58, PG 90, 592D; 593B; 593C): è un piacere al quale la γνώμη ha dato la preferenza. Se teniamo presente che essa è proprio l'intimo centro decisionale che opta per una relazione razionale ο irrazionale tra intelletto e sensibilità (cfr. ibid. 596C),che decide il terreno sul quale investire la capacità spirituale (27), capiamo il senso pregnante dell'espressione in questione: il piacere che ha congiunto a sé l'oblio di Dio, che si muove in un orizzonte di pura immanenza, il piacere fine a se stesso. Dal momento in cui l'uomo entra nell'ignoranza della vera causa della sua esistenza, è obbligato a cercare nel rudimentale essere che possiede il principio di essa e nel godimento di ciò che lo mantiene in vita il suo combustibile. Si noti che questo "mantenere in vita" non è la semplice sussistenza ma, dal momento che stiamo parlando dell'uomo filautico, non può trattarsi che del successo nel tentativo di un soddisfacimento globale delle esigenze iscritte nell'intelletto sul piano della creazione sensibile. L'uomo, creato per essere in "incessante moto verso Dio" (πρὸς Θεὸν ἀεικινησία Amb., PG 91, 1116BC), si pone in incessante moto verso il piacere, finalizzando a tale scopo la sua inventività, che è quanto Massimo significa dicendo che "l'inventività (ἐπινοητικὴ δύναμις) è unita alla sensibilità" (QT 58, PG 90, 596C; cfr. 597B).

7. La gioia dell'anima causa ed esito del dolore sensibile.
Per spiegare questo asserto, occorre distinguere il piano originario da quello postlapsario. La condizione nella quale Adamo è creato comporta naturalmente una differenziazione delle operazioni di intelletto e sensibilità: "L'intelletto e la sensibilità, infatti, hanno operazioni naturali opposte l'una all'altra, a causa della somma differenza ed eterogeneità dei loro oggetti. L'uno infatti ha per oggetto le sostanze intelligibili e incorporee, che ha disposizione naturale ad afferrare nella loro essenza; l'altra invece, le nature sensibili e corporee, che anch'essa per natura afferra" (QT 58, PG 90,

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596D) (28). Con ogni evidenza, siamo sul piano originario, creaturale (29). Parallela alla duplicità di operazioni sta, come abbiamo veduto, la duplicità dei criteri di discernimento e delle evidenze. La gioia spirituale consiste per sua natura nel non agire sulla base dell'evidenza sensibile, ma sulla base dell'evidenza dell'intelletto, che ha la capacità di discendere la relazione di tutte le cose a Dio (λόγος), le cose temporanee da quelle eterne, la vera dalla falsa vita: questo implica un'esperienza di "dolore" della sensibilità. Occorre però aggiungere subito che non è l'esperienza del dolore postlapsario, perché su di essa non si è ancora riversata la carica spirituale dell'intelletto. Si tratta di uno stato di inappagamento della sensibilità, che non percepisce come piacere suo ciò che costituisce il piacere dell'intelletto, e quindi non può appagarsi in esso. Né potrebbe essere diversamente, dal momento che Dio non può essere oggetto di evidenza sensibile. Soltanto nella esperienza diretta escatologica Dio si presenta come assolutamente evidente per l'uomo da ogni punto di vista (παμφαής παρουσία, Amb., PG 91, 1392CD). Ma ciò che permette all'uomo di giungere a questo fine (l'"essere sempre") è proprio la libera scelta dell'essere bene, che comporta il rifiuto di eliminare arbitrariamente e di propria iniziativa il disagio del sentire in sé una duplicità di criteri e di evidenze abbassando l'intelletto al livello della sensibilità. Mediante la scelta di accettare tale disagio, il differimento imposto dal comando di Dio, l'intelletto si rafforza e si consolida proprio in quanto imitatore di Dio nell'amore indipendentemente da ogni determinazione estrinseca. La vita dell'uomo sta nel continuare questo movimento di amore che ha inizio nella creazione: è la potenza della mutua disposizione all'amore (ἀντιδιδομένη διάθεσις) "che rende l'uomo dio, attraverso la sua divinizzazione, e Dio uomo, attraverso la sua umanazione" (ἀνθρώπησις), secondo la "bella trasformazione reciproca" (καλὴ αντιστροφή, Amb., PG 91, 1084C). La vita dell'uomo sta nell'avere Dio come paradigma, cosa che si attua nell'amore, dal momento che anche Dio, a sua volta, si dona interamente all'uomo (ibid. 1113B). In questa imitazione di Dio sta la legge della grazia (cfr. QT 64, PG 90, 725C), mediante la quale l'uomo è divinizzato (30). È questa scelta che pone solidamente l'uomo nella vita: l'"essere bene" diventa l'"essere sempre". L'errore dell'uomo sta proprio nel ritenere possibile l'appagamento definitivo mediante l'eliminazione della duplicità delle scale valutative, mentre è proprio l'accettazione di essa l'unica

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possibile forza divinizzante che permetterà la graduale trasformazione non solo dell'intelletto ma anche della sensibillità. Non cogliendo ciò, l'uomo pretende assurdamente di far coincidere la sua nascita con il suo fine, il suo venire all'essere con l'"essere sempre", omettendo l'imprescindibile termine di collegamento, l'"essere bene", che solo dà consistenza ontologica all'originario venire all'essere, destinato altrimenti a corrompersi.
Sul piano postlapsario il dolore della sensibilità è causa della gioia dell'anima, ovvero la gioia dell'anima produce il dolore della sensibilità, perché essa richiede il rifiuto del piacere sensibile come strumento del progetto filautico ("piacere volontario"), investito di tutta la carica spirituale umana. Questo rifiuto significa abbracciare il dolore, sia volontario, mediante la temperanza, sia involontario, mediante la pazienza (cfr. QT 58, PG 90, 593D; 596C). Si tratta dell'esperienza del dolore postlapsario che, oltre al semplice inappagamento della sensibilità, comporta la fatica di distogliere la capacità spirituale dall'ambito sensibile per ricondurla a Dio, in una situazione di corruzione fisica e di disintegrazione dell'anima. È "quell'afflizione ragionata (λύπη λελογισμένη) approvata dai sapienti nelle cose divine, che mostra il male presente. Male presente dicono essere l'afflizione che è nell'anima quando il piacere sensibile vinca il discernimento (διάκρισις) razionale" (ibid. 600AB) (31). In virtù dell'"afflizione ragionata" l'uomo decaduto ricostruisce, al seguito di Cristo, l'immagine di Dio deturpata dal peccato, rinascendo ogni giorno. E man mano che recupera la gioia dell'anima è proporzionalmente da essa condotto ad abbracciare il dolore, il quale ne è in tal modo effetto (τέλος). Infatti, nella misura in cui l'anima è nella gioia, cessa il bisogno del piacere sensibile, e quindi di porre l'inventività al servizio di esso (ibid. 596C; 597B). A questo punto "la corsa virtuosa dell'anima si compie senza impedimenti, imponendo sofferenze alla sensibilità nella misura in cui genera piacere e gioia nell'anima che si avvicina a Dio, mediante l'illuminazione che le è connaturale, secondo virtù e conoscenza" (ibid. 600B).

La dottrina ascetica del Confessore si presenta singolarmente ricca, solida e coerente. Saldamente ancorata al dato dogmatico e ai contributi della filosofia, essa vede nella duplice dimensione dell'uomo, quella materiale e

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quella spirituale, la condizione stessa che rende possibile la sua divinizzazione, radicata nella sovranamente libera scelta di imitare l'amore di Dio. Ma in questa stessa duplicità si apre pure la possibilità della deviazione, del rifiuto, che porta l'uomo a scegliere come decisivo il criterio sensibile. Questa scelta introduce la corruzione nel creato, e priva l'anima del suo unico vero piacere: l'uomo è iniziato all'esperienza del dolore, indizio del guasto prodottosi nella creatura umana. Accogliendo questo indizio e accollandosi la fatica di imparare a scegliere sulla base dell'evidenza dell'amore, l'uomo ritrova la libera somiglianza con il suo Signore.

APPENDICE
QUESTIONE 58 A TALASSIO (PG 90, 592D-600B)

(592D) DOMANDA
«Perciò esultate, anche se è necessario che ora siate un po' afflitti da varie tentazioni» (1Pt 1,6). Come uno che è afflitto da tentazioni può esultare in ciò da cui è afflitto?

RISPOSTA
La Parola della verità conosce due tipi di afflizione: uno che sta nell'anima in modo occulto; un altro nella sensibilità in modo manifesto. La prima occupa totalmente la profondità dell'anima, tormentata dal flagello della coscienza; l'altra avvolge tutta la sensibilità, costretta dal peso dei dolori a ritrarsi dalla sua naturale espansione. La prima costituisce l'esito del piacere della sensibilità, mentre l'altra quello della gioia dell'anima. 593A Ο piuttosto, la prima è la conclusione dei piaceri volontari della sensibilità, mentre l'altra delle pene sensibili indipendenti dalla volontà.
L'afflizione è infatti, secondo la mia opinione, una disposizione priva di piaceri. Privazione di piaceri è introduzione di pene. E pena è chiaramente il difetto dell'abito naturale, ο il venir meno di esso. E difetto dell'abito naturale è alterazione della potenza per natura soggetta all'abito. E alterazione della potenza per natura soggetta all'abito è il modo di operare conforme all'abuso dell'operazione naturale. E abuso del modo dell'operazione è il moto della potenza verso ciò che non è secondo natura e non esiste.
(593B) Allo stesso modo poi che la Parola, come ho detto, conosce due tipi di afflizione, così essa conosce un duplice genere di tentazioni: l'uno dipendente, l'altro indipendente dalla volontà; il primo artefice di piaceri volontari, il secondo portatore di dolori involontari. Infatti la tentazione volontaria produce liberamente piaceri chiaramente volontari; invece quella involontaria impone evidentemente dolori involontari, non scelti. E la prima è causa dell'afflizione dell'anima, la seconda della sensibilità.
(593C) Perciò ritengo che il nostro Signore e Dio, insegnando ai propri discepoli come bisogna pregare, al fine di chiedere la liberazione dal genere di tentazione che dipende dalla volontà dicesse: «E non ci indurre in tentazione» (Mt 6,13). Egli insegna ai propri discepoli a pregare affinché non venga fatta loro vivere l'esperienza delle tentazioni volontarie, che di proposito generano piacere. Invece il grande Giacomo, detto fratello del

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Signore, insegnando a coloro che combattono per la verità a non ritirarsi di fronte alle tentazioni involontarie, dice: «Considerate gioia piena, fratelli miei, quando cadete in ogni sorta di tentazioni» (Gc 1,2), evidentemente in quelle involontarie e indipendenti dalla volontà, generatrici di dolori. E tutti e due lo mostrano chiaramente laddove il Signore aggiunge: (593D) «Ma liberaci dal male»; e nello stesso passo il grande Giacomo continua: «sapendo che la prova della nostra fede produce la pazienza; la pazienza poi sia esercitata sino alia perfezione, affinché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,3-4). È perfetto colui che mediante la temperanza combatte le tentazioni volontarie, e mediante la pazienza persevera in quelle involontarie. È integro colui che giunge all'azione unita alla conoscenza, e alla contemplazione non priva di azione.
Una volta divisa nell'anima e nella sensibilità l'afflizione dal piacere, colui che si è procurato il piacere dell'anima, ed ha accettato l'afflizione della sensibilità, è provato, perfetto e integro: provato, a causa dell'esperienza di contrarietà nella sensibilità; (596A) perfetto, perché attraverso la temperanza e la pazienza combatte senza cedere contro il piacere e il dolore della sensibilità; integro, perché ha conservati intatti nella stabilità dell'identità conforme alla ragione gli abiti che combattono le disposizioni sensibili opposte fra di loro. Mi riferisco all'azione e alla contemplazione congiunte l'una all'altra, senza che l'una sia separata dall'altra; al contrario, l'azione mostra attraverso le sue modalità la conoscenza della contemplazione, e la contemplazione è munita della virtù dell'azione non meno che della ragione.
Poiché dunque la Parola ha mostrato che esistono due tipi di afflizione e di piacere, in quanto si trovano nell'anima ο nella sensibilità, esaminiamone più globalmente le cause. (596B) Duplice è il modo della afflizione dell'anima: l'uno è per i propri, l'altro per gli altrui peccati. Causa di tale afflizione è chiaramente il piacere della sensibilità di colui che è afflitto, oppure di coloro a causa dei quali egli è afflitto. Infatti, secondo la verace Parola non c'è quasi nessun peccato vero e proprio nell'uomo che non abbia (*) come principio della sua origine una irrazionale relazione dell'anima con la sensibilità in vista del piacere. Invece, causa del piacere dell'anima è manifestamente l'afflizione sensibile di colui che si rallegra e gioisce delle proprie o delle altrui virtù. Infatti, secondo la verace Parola non c'è quasi nessuna virtù vera e propria nell'uomo che non abbia come principio della sua origine un ragionato distacco dell'anima nei confronti della sensibilità. (596C) Quando l'anima, per la virtù, ha raggiunto il distacco nei confronti della sensibilità, necessariamente essa si troverà nelle pene poiché, conformemente all'orientamento della volontà, non ha congiunta a sé l'inventività per ricercare cose piacevoli. Al contrario, respinge valorosamente mediante la temperanza l'insorgere dei naturali piaceri sensibili; di fronte al sopravvenire di pene contro natura e involontarie, nella pazienza persevera del tutto inflessibile; conforme alla virtù non si esclude dalla ricompensa e dalla gloria divina per un piacere inconsistente; e non decade dall'altezza delle virtù risparmiando la carne per il dolore della sensibilità che riceve pene. La causa dell'afflizione della sensibilità sta nel fatto che l'anima si occupa completamente di quelle cose che per lei sono secondo natura. (596D) È manifestamente l'operazione contro natura

(*) Con il testo riportato da Nicodimo Aghiorita in Φιλοκαλία τῶν ἱερῶν νηπτικῶν, vol. 2, Atene 1974(4) 145-146, leggo ἔχουσα al posto di ἔχουσαν.

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dell'anima che crea il piacere della sensibilità, non potendo avere esso altro principio di sussistenza che la rinuncia dell'anima alle cose secondo natura.
L'intelletto e la sensibilità, infatti, hanno operazioni naturali opposte l'una all'altra, a causa della somma differenza ed eterogeneità delle cose loro soggette. L'uno infatti ha per oggetto le sostanze spirituali e incorporee, che ha disposizione naturale ad afferrare nella loro essenza; l'altra invece le nature sensibili e corporee, che anch'essa per natura afferra. (597A) Poiché dunque è impossibile che l'intelletto passi alle realtà intelligibili che le sono connaturali senza la contemplazione di quelle sensibili che si frappongono (infatti è totalmente impossibile che vi possa essere contemplazione senza che la sensibilità, per natura affine alle realtà sensibili, sia unita all'intelletto), giustamente se, venendo in contatto con esse, resta impigliato nell'esteriorità della realtà visibili, ritenenendo che la sensazione a sé congiunta sia la sua operazione naturale, decade dalle realtà intelligibili secondo natura e afferra - contro natura - con entrambe le mani, come dice il proverbio, i corpi. Subendo la loro operazione in contrasto con la ragione, dal momento che la sensibilità ha la meglio, da un lato l'intelletto diviene generatore dell'afflizione dell'anima, a causa dei continui flagelli della coscienza che la tormenta; dall'altro produce chiarissimamente il piacere della sensibilità, frizionandola mediante le invenzioni dei modi favorevoli alla carne. (597B) Se invece l'intelletto nei confronti della sensazione distingue l'esteriorità non appena entra in contatto con la realtà visibile, e contempla le ragioni spirituali degli esseri, pure dal loro aspetto esteriore, da un lato produce il piacere dell'anima, non essendo vinto da nessuna della realtà percettibili dalla sensibililtà; dall'altro genera afflizione nella sensibilità, privata di tutte le realtà sensibili conformi alla sua natura. Quando infatti la ragione ha la precedenza sulla sensibilità nella contemplazione delle realtà visibili, la carne rimane priva di ogni piacere conforme alla sua natura, perché non usufruisce di una sensibilità libera e sciolta dai legami razionali al fine di servire ai propri piaceri.
Poiché dunque, come ho detto, è il piacere della sensibilità che produce l'afflizione dell'anima, ovvero la sua pena (entrambe sono la stessa cosa), e invece è il piacere dell'anima che crea l'afflizione, ovvero la pena, della sensibilità, (597C) giustamente colui che si protende nella speranza alla «vita del Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, mediante la sua risurrezione dai morti, in vista di una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1Pt 1,3), esulta nell'anima e gioisce di una gioia ineffabile, continuamente risplendendo di letizia per la speranza dei beni futuri; ma nella carne e nella sensibilità prova afflizione, ossia le pene che gli sopraggiungono in seguito alle varie tentazioni, con i conseguenti dolori. Da ogni virtù infatti nasce piacere e pena: pena della carne, privata della dolce e piacevole sensazione; piacere (**) dell'anima, che gode delle ragioni intelligibili, pure da ogni elemento sensibile.
(597D) E' dunque necessario che l'intelletto nella vita presente (questo infatti significa per me "ora") sia afflitto quanto alla carne, a causa delle molte pene che nascono dalle tentazioni che gli capitano a motivo delle virtù, e gioisca e si rallegri sempre nell'anima per la speranza dei beni eterni, anche se totalmente sofferente nella sensibilità: «Le

(**) Seguendo Hausherr (Philautie... 150) leggo ἡδονή invece di ὀδύνη.

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sofferenze del momento presente non sono infatti paragonabili alla gloria che deve rivelarsi in noi» (Rm 8,18), dice il divino apostolo.
(600A) Così dunque, secondo me, un uomo può gioire di quello che lo rattrista. Afflitto nella carne a causa delle pene che sopporta per la virtù, nell'anima gioisce di quella stessa virtù, perché vede come presente la bellezza delle realtà future. Per essa, come il grande Davide, ogni giorno muore della morte volontaria della carne, lui che nell'anima rinasce continuamente in spirito, poiché possiede la gioia salutare e l'afflizione utile. Non ci riferiamo all'afflizione stolta della moltitudine, che annienta l'anima perché le passioni sono insoddisfatte e le cose materiali assenti, dal momento che essi desiderano contro natura quelle cose che non si devono, e fuggono da quelle che non si devono fuggire; ma di quella afflizione ragionata, approvata dai sapienti nelle cose divine, che mostra il male presente. (600B) Male presente dicono essere l'afflizione che è nell'anima quando il piacere sensibile vinca il discernimento razionale, e che invece sta nella sensibilità quando la corsa virtuosa dell'anima si compie senza impedimenti, imponendo pene alla sensibilità nella misura in cui genera piacere e gioia nell'anima che si avvicina a Dio, mediante l'illuminazione che le è connaturale, secondo virtù e conoscenza.

NOTE

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(*) Le opere di Massimo sono citate con le seguenti abbreviazioni:
Amb. = Ambiguorum Liber, PG 91, 1032-1417;
De Car. = Capita de Caritate, PG 90,960-1080;
Or. Dom. Exp. = Orationis Dominicae Expositio, PG 90, 872-909;
QT = Quaestiones ad Thalassium, PG 90, 244-785;
Theol. Oec. = Capita Theologiae et Oeconomiae, PG 90, 1084-1176:
Ep. = Epistolae, PG 91, 3674-649.
(1) Per una presentazione della dottrina de! Confessore sul piacere e il dolore cfr. C. Schonborn, Plaisir et douleur dans l’analyse de S. Maxime, d'après les Quaestiones ad Thalassium, in Maximus Confessor. Actes du Symposium sur Maxime le Confesseur, Fribourg 2-5 sept. 1980, edd. F. Heinzer et C. Schonborn, Fribourg 1982, 273-284.
(2) Circa tale terminologia, occorre osservare in primo luogo che il termine αἴσθησις usato da Massimo indica la potenza dell'anima (=sensibilità), l'organo sensoriale (=senso) e il suo atto (=sensazione) [cfr. H.-I. Dalmais, Le vocabulaire des activités intellectuelles, volontaires et spirituelles dans l’anthropologie de S. Maxime le Confesseur, in Mélanges offerts au P. M.-D. Chenu, Paris 1967, 197] analogamente a quanto valeva nell'uso stoico del termine [cfr. M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Gottingen 1959; tr. it. La stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze 1967, vol. I, 99; per le ascendenze filosofiche della caratterizzazione dell'anima in Massimo vd. W. Völker, Maximus Confessor als Meister des geistilichen Lebens, Wiesbaden 1965, 94-95]. A rigore, non ha senso contrapporre l’αἴσθησις alla ψυχή, perché la prima è una parte della seconda. In realtà, Massimo usa spesso ψυχή al posto di νοῦς, termine di lunga tradizione filosofica e teologica [per la quale vd. S. Lilla, v. Nous in Dizionario patristico e di antichità cristiane, vol. 2, Casale Monferrato 1984, 2423-2433], che designa la spiritualità dell'uomo, e che abbiamo tradotto con "intelletto" (cfr. Völker, Maximus... 95-96: L. Thunberg, Microcosm and mediator. The theological anthropology of Maximus the

p. 73

Confessor, Lund 1965, 119). Anche se talvolta, coerentemente con il vocabolario di Evagrio, i due termini sono contrapposti (cfr. Dalmais, Le vocabulaire... 192), non è questo il caso della QT 58, come è dimostrato in modo lampante dalla interscambiabilità di ψυχή e νοῦς in 596D. Anche nella nostra esposizione si è rispettata la terminologia del Confessore. I due termini saranno quindi da considerarsi sostanzialmente equivalenti.
(3) A mo' di discarico riferiamo il giudizio di Hausherr, secondo il quale la QT 58 è scritta “en un style qui défie toute traduction” [Philautie. De la tendresse pour soi à la charité selon saint Maxime le Confesseur, 'Orientalia Christiana Analecta' 137, Roma 1952, 62).
(4) La QT 58 parla di afflizione (λύπη) ο anche di pena (πόνος) - che in 597B sono identificale, contrariamente all'uso comune di πόνος in Massimo, per il quale vd. Völker, Maximus... 163-5 -. Solitamente Massimo contrappone a ἡδονή il termine ὀδύνη. In questo caso l'uso di λύπη si spiega mediante il fatto che il brano della 1Petri su cui verte la domanda parla di "afflitti" (λυπηθέντες). Cfr. Schonborn, Plaisir... 272 n. 18. Sull'uso della coppia piacere/dolore, con le sue varianti, in Massimo e nella precedente tradizione cfr. Thunberg, Microcosm... 167-169.
(5) Ogni traduzione del termine λόγος è inadeguata, a causa della complessa dottrina che vi è condensata, per la quale vd. H.-I. Dalmais, La théorie des Logoi des créatures chez saint Maxime le Confesseur, "Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques" 36, 1952, 244-249; P. Sherwood, The earlier Ambigua of St. Maximus the Confessor, 'Studia Anselmiana' 36, Roma 1955, 155-180); Völker, Maximus... 29-31; Thunberg, Microcosm... 76-81; A. Riou, Le monde et l’église selon Maxime le Confesseur, Paris 1973, 54-63. È da rilevare che, essendo i λόγοι l'intenzione divina sulle creatrure, dicono sempre relazione a Dio. In riferimento al fatto che i λόγοι sono il senso delle creature in rapporto a Dio e al resto della creazione, la traduzione meno inadeguata è apparsa “ragioni”.

p. 74

(6) Cfr. H.-I. Dalmais, v. Maxime in Dictionnaire de spiritualité, vol. 10, Paris 1980, coll. 836-847.
(7) Cfr. H. U. Von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Weltbild Maximus des Bekenners, Einsiedeln 1961(2), tr. it. Liturgia cosmica. L'immagine dell'universo in Massimo in Confessore, Roma 1976, 171-177, 291-298; Thunberg, Microcosm... 100-
110; 424-430.
(8) Il termine è intraducibile e si è preferito conservarlo. Per una presentazione del suo significato cfr. Völker, Maximus... 410-423; in particolare, per la mutata comprensione da parte di Massimo rispetto ad Evagrio cfr. Thunberg, Microcosm... 317-327.

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(9) Su questo importante testo cfr. Balthasar, Liturgia... 180; Thunberg, Microcosm... 175-176; Dalmais, Le vocabulaire... 197; J. M. Garrigues, Maxime le Confesseur. La charité avenir divin de l'homme, Paris 1976, 88; Schonborn, Plaisir... 282.
(10) Cfr. Balthasar, Liturgia... 140-141; Völker, Maximus... 129-130; Thunberg, Microcosm... 230-231; Riou, Le monde... 49-54; 63-70; 88-91.

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(11) Cfr. Thunberg, Microcosm... 133-137; Garrigues, Maxime... 90-92.
(12) Cfr. Thunberg, Microcosm... 128-131.
(13) Cfr. Origene, De principiis 1.7.4-5; 1.8.3-4; 2.9.6-7; 3.3-5; H. Crouzel, Origène, Paris 1985, tr. it. Origene, Roma 1986, 277-295.
(14) Per le varie interpretazioni dei biblici alberi dell'Eden cfr. Thunberg, Microcosm... 174-178.

p. 77

(15) Cfr. Sherwood, The earlier... 195.
(16) Cfr. ibid. 196-198; vd. anche Garrigues, Maxime... 97-98.

p. 78

(17) Un ruolo centrale ha nella dottrina del Confessore l'idea dell'autodeterminazione da parte dell'uomo: cfr. Sherwood, The earlier... 198-204.
(18) Venendo all'essere l'uomo è posto in uno stato di irresistibile bisogno di pienezza che lo spinge naturalmente verso Dio, causa e fine della creatura e "supremamente desiderabile" (Amb., PG 91, 1069B). Mediante la sua libera scelta, egli è chiamato ad assecondare tale desiderio, realizzando un "moto volontario conforme al desiderio" (κατ'

p. 79

ἔφεσιν ἐξουσιαστικὴ κίνησις, Amb. 1076CD). Cfr. Balthasar, Liturgia...  150; Garrigues, Maxime... 92-99.
(19) Cfr. Hausherr, Philautie... 44.
(20) Come in altri casi, anche nell'uso di σάρξ si nota una oscillazione. Può indicare talora l'uomo in quanto ribelle a Dio (come si spiega nel testo), ma anche la sua semplice dimensione materiale e sensibile, priva di connotazioni morali. Quest'ultimo è il caso della QT 58. In 597C il termine è posto in coordinazione con αἴσθησις; in 597D per due volte appare contrapposto a ψυχή, esattamente al posto di αἴσθησις. Sull'uso di σάρξ (σώμα) vd. Völker, Maximus... 91-93.

p. 80

(21) Il termine διάχυσις per indicare lo stato del piacere sensibile è di uso stoico (cfr. Pohlenz, La stoa... 1.287 e 303). Lo stesso vale per συστολή, συστέλλομαι riferito al dolore sensibile (cfr. ibid. 1.287, 294-5, 299, 301), che si ritrova in QT 58, 592D.

p. 81

(22) Cfr. Völker, Maximus... 110.
(23) La citata definizione di πάθος (πρὸς τὸ μὴ πεφυκὸς κατὰ φύσιν κίνησις) è quella della scuola stoica: ἄλογος και παρά φύσιν κίνησις ψυχής (cfr. Pohlenz, La Stoa... 1.286), che si trova pure in Filone e Clemente Alessandrino (cfr. Völker, Maximus...  121-123).

p. 82

(24) Per alcuni testi di Massimo su questo tema vd. Völker, Maximus... 191-192.

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(25) Alla ricerca del piacere corrisponderà la "tentazione volontaria" (κατὰ γνώμην), mentre alla fuga dal dolore la "tentazione involontaria" (παρὰ γνώμην): QT 58, PG 90, 593B,C,D (cfr. Völker, Maximus... 162-163). La sentenza circa la doppia specie di tentazioni (dalla prosperità e dall'avversità), di origine stoica, si trova in Basilio, Hom. in illud "Destruam horrea mea" 1, PG 31, 261AB e in Giovanni Crisostomo, Hom. in ps. XLVIII 4, PG 55, 227 (cfr. Y. Courtonne, Saint Basile. Homélies sur la richesse, Paris 1935, 75-76).
(26) Sulla coscienza come fonte di afflizione vd. Völker, Maximus... 147-152.

p. 84

(27) La γνώμη è la sorgente della προαίρεσις, anzi spesso nelle opere precedenti alla controversia monotelita, nelle quali non vi è il successivo rigore terminologico, è assimilala ad essa: cfr. Dalmais, Le vocabulaire... 193-197: vd. anche Thunberg, Microcosm... 226-231.

p. 85

(28) Si tratta della dottrina aristotelica sulla necessità dell’αἴσθησις per il funzionamento del νοῦς (cfr. De anima 3.429a. 16-18).
(29) Cfr. anche QT 58, PG 90, 592D, 596C, 597B.
(30) Cfr. Völker, Maximus... 471-489; Thunberg, Microcosm... 456-459; J. M. Garrigues, L'energie divine et la grâce chez Maxime le Confesseur, "Istina" 11, 1974, 286-296.

p. 85

(31) Sulla distinzione tra afflizione mondana e afflizione salutare (QT 58, 600Α-Β) cfr. Basilio, Reg. Br. 192, PG 31, 1212A; Hom. De grat. act., PG 31, 217-237; Hom. in mart. Iulittam, PG 31, 237-261; Giovanni Crisostomo, Hom. de stat. XV, PG 49, 153-162; In ep. 2 ad Cor. hom. 15, PG 61, 501-512; In ep. ad Phil. hom. 15, PG 62, 287-298. In tutte le citate omelie è presente la distinzione tra afflizione per i propri e per gli altrui peccati (cfr. QT 58, 596B). In particolare, per l'idea che l'afflizione salutare permette l'individuazione di un male, cfr. Gregorio Nisseno, De beatit. or. 3, PG 44, 1219-1222. 

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