Enrico IV

"Pazzia", parola vecchia, generica e maltrattata: tutto quanto esce dalle proprie visuali non è stato - ed è tuttora - etichettato come tale? Gesù stesso, e gli apostoli, non sono stati ritenuti pazzi? Più modernamente e tecnicamente diciamo: "malattia mentale". Rimane il fatto che pone da sempre grandi sfide. Non soltanto quelle legate alla possibilità di una terapia (questioni già ardue e spesso insolute - il personaggio del dottore "alienista" non fa qui gran figura), ma anche quelle che riguardano non soltanto i pazzi e chi li voglia curare, ma gli uomini tutti indistintamente. Se ogni anomalia reca implicita la domanda sulla regola, la pazzia pone la questione della normalità, la quale implica a sua volta almeno tre problemi enormi: la questione della mente (quando funziona bene?); la questione della realtà e della sua percezione (qual è la realtà?); la questione dell'identità (chi sono io? chi sei tu?). Sono le questioni intorno alle quali ruota questo dramma di grande fascino che è Enrico IV di Pirandello, andato in scena a Prato al Teatro Metastasio dal 14 al 17 aprile, per la regia e l'interpretazione di Franco Branciaroli. Classica l'opera, classica la rappresentazione e l'interpretazione, nel chiaro e riuscito intento di dar voce al fine dialettico Luigi Pirandello, che riesce a costruire una sottile trama, nella quale alla fine l'incauto spettatore si trova inestricabilmente impigliato. E così chi al principio si sentiva forte di sé e del proprio senso della realtà, si fa - almeno per un attimo - pensoso e addirittura incerto: tali solide certezze - prima fra tutte l'immagine mentale che ciascuno di noi ha di sé - davvero son fondate? O forse nel punto di vista del pazzo non si aprono scenari degni di considerazione, se non addirittura prossimi al sovraumano, al divino? Non dimentichiamo la "divina mania", l'invasamento nel quale in tante culture la divinità parla(va). Se poi non è così chiaro quale sia la realtà e la vita, non si potrebbe preferire, come il nostro Enrico, la follia? Almeno il pazzo ha - può avere -, come lui, qualche lucidità (forse l'unica possibile?), che lo porta ad identificare la propria pazzia come tale, e quindi a non calarsi completamente in essa. Non è ancor più pazzo chi invece prende se stesso e la propria vita con quella infinita serietà e drammaticità che affoga e affonda interamente in essa, precludendo così ogni possibilità di metter fuori la testa? Questioni non oziose, che hanno lasciato grandi impronte in filosofie e religioni. La meditazione buddista non ha l'obiettivo di decostruire l'ego, questa impalcatura illusoria che rinchiude nella infernale dialettica del desiderio e del dolore? E la stessa rivelazione cristiana non ci parla di Trinità, ossia di tre persone che sono uno? Misteri, sui quali l'arte vera, strappandoci alla balda superficialità dell'ego gestore e manipolatore (rappresentata dal Barone Tito Belcredi, che infine muore), fa bene a renderci pensosi. E un po' pazzi.

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