Una caricatura della fede cristiana

Da Laika (uno spettacolo di e con Ascanio Celestini; alla fisarmonica Gianluca Casadei, produzione Fabbrica srl, co-produzione RomaEuropa Festival 2015 e Teatro Stabile dell’Umbria. Prato, Teatro Metastasio, 6-9 aprile 2017) si esce frastornati e perplessi. Frastornati dal copioso profluvio verbale di questo teatro di narrazione; perplessi per la superficialità con la quale vi si affrontano le tematiche religiose e specificamente cristiane. C'imbattiamo in temi come preghiera e santi, processi di canonizzazione e miracoli, origine dell'universo, demonio, male e indifferenza di Dio, relativismo e dogmatismo. E altro. Già da questa sommaria elencazione appare come per affrontare in poco meno di due ore temi di questo calibro occorrerebbe una capacità - non solo artistica, ma filosofica e teologica - fuori del comune. Evidentemente, Celestini ritiene di avere le carte in regola. Data la vastità degli elementi toccati, non si proverà qui nemmeno a impostare un abbozzo di discussione specifica su tali questioni. Lo spettacolo non racconta solo una vicenda di emarginazione, ma presenta una serie di considerazioni che si collocano precisamente sul piano della riflessione, o almeno di qualcosa che vorrebbe esserlo. Correttezza vorrebbe allora che le cose fossero presentate in modo critico. Qualunque riflessione critica presuppone però una presentazione aderente all'oggetto, ossia tale che chi professa un certo credo, dottrina, idea, vi si possa riconoscere. Solo su questa base può fondarsi efficacemente e veracemente la valutazione, anche negativa. Ora, nessun cristiano potrebbe riconoscere il proprio Credo nella stralunate considerazioni di Celestini. Esso vi appare francamente sfigurato. Quel che emerge è una caricatura della fede cristiana. Non si pretende che essa venga condivisa (qui ognuno fa legittimamente le sue scelte), ma che sia mostrata in modo veritiero, per quel che intende essere. Da ogni critica posso e devo trarre arricchimento, a condizione che mi si prenda sul serio. L'unico elemento che Celestini salva è la solidarietà, vero e unico miracolo possibile, quando qualcuno abbandona la propria finestra di spettatore e scende in strada a soccorrere un barbone malmenato. Siamo di fronte all'ennesima riduzione moralistica del mistero cristiano: tutto il complesso delle verità cristiane vien lasciato cadere (leggi canzonato), per affermare unicamente l'importanza della pratica. Il procedimento non è particolarmente originale, l'esito nemmeno. Proprio la unilaterale preminenza data all'elemento pratico può spiegare la superficialità con la quale tutto il resto è trattato. Certo, da un artista non ci attende necessariamente che sia filosofo o teologo (anche se i grandi lo sono). Ciò che a Celestini riesce meglio, è raccontare lo squallore di vite sciupate, emarginate. Qui si sente la realtà, la vita. Nel resto no. Il resto è noia.

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