Und wovon lebt so ein Tier?

"Di che cosa vive un simile animale?". La domanda può essere una buona chiave di lettura per questo dramma dai molteplici risvolti. A dispetto del titolo scanzonato, "Le Mutande" di Carl Sternheim, autore semisconosciuto in Italia (poco della sua produzione è tradotto) ma meritevole di attenzione, è un testo di notevole impegno, sia in scena che in platea. Non è intrattenimento fine a se stesso, questo, e ne va dato atto a chi lo ha proposto a un pubblico chiamato a fare una certa fatica per "andare al di là", così come richiesto dal teatro espressionista di questa "commedia borghese". Non che vi si trovi alcuna vera proposta positiva: essa è piuttosto una critica della visione borghese, raccontata nell'impiegato Theobald Maske. La commedia, rappresentata per la prima volta nel 1911, è come lo svelamento di atteggiamenti e valori che saranno propri dell'intero XX secolo (significativamente l'azione è posta nel 1900). Non si può fare a meno di notare come la concezione borghese vi abbia sopraffatto e sbaragliato ogni tentativo di alternativa, proprio come accade in scena, dove la moglie di Theobald, Luise, dopo aver tentato di sottrarsi a quella gabbia, deve alla fine rinunciare al sogno di libertà che per un momento le è balenato dinanzi. È ancora una volta l'eros a sobbarcarsi il compito (ingrato) di rappresentare l'alternativa al grigiore borghese del computo dei talleri, alternativa invero insufficiente ma indubbiamente accattivante del "fate l'amore, non la guerra". Ci sono in campo altre proposte, da Wagner a Nietzsche, dal darwinismo all'estetismo, ma quel che trionfa è il calcolo, nel quale l'eroe borghese si esalta, che pretende di sottomettere e regolamentare ogni altra cosa, compreso l'eros e la stessa fecondità: l'indiscutibile dogma odierno del "(non) potersi permettere un figlio" viene qui spietatamente svelato. Siamo così tornati al punto di partenza: "Di che cosa vive un simile animale?". Ma di quale animale si sta parlando? Del "serpente di mare" di cui dice il giornale letto da Theobald; oppure del canarino in gabbia, di fronte al quale Luise chiude mestamente la propria vicenda? Di tutti e due, certo. Ma essi sono specchio di quell'altro ben misterioso animale, l'uomo, che, come Luise, si sente chiuso in una gabbia, magari dorata. La storia umana non è in fondo storia di tentativi di evasione? Eppure, a dispetto delle risposte che si sono date e si daranno, la domanda rimane: di che cosa ha veramente bisogno l'uomo per vivere? Per il credente, risuona qui l'eco della parola biblica, che per il moderno, e per Sternheim, rimane nel suo semplice aspetto problematico: di che cosa vive l'uomo? Manca la risposta, certo: di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Ma si raccogliesse seriamente la sfida che questa domanda continua a porci, senza affogarla nelle comode "stanzine" nelle quali, a dispetto di un mondo iperconnesso, oggi (forse più di ieri?) continuiamo a vivere! Onore dunque a tutta la squadra che si è impegnata a leggere con attenzione un testo meritevole, per la regia attenta del pratese Luca Cortina, che ameremmo rivedere all'opera sulle scene della sua e nostra città.

Le Mutande, di Carl Sternheim.15/20 settembre 2015, Fabbricone, regia di Luca Cortina; traduzione Giorgio Zampa, dramaturg Paolo Magelli, scene e costumi Lorenzo Banci, luci Roberto Innocenti, assistente alla regia Giulia Barni, con: Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Francesco Borchi, Fulvio Cauteruccio; produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Prima Nazionale.

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