Il Servitore di due Padroni, da Carlo Goldoni
30 gennaio - 2
febbraio 2014, Teatro Metastasio, PRATO. Il Servitore di due Padroni, da Carlo Goldoni,
drammaturgia di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella.
"Arlecchi-no".
Lo spettatore è avvertito sin dalle prime battute: qui non troverai
l'Arlecchino che conosci. Del resto, era già scomparso dal titolo (in questo,
per una volta, la rappresentazione ripristina l'originale goldoniano dopo la ben
nota sterzata di Strehler). Gli è stata tolta la maschera. Adesso, privo del suo
comodo riparo, deve mettersi in cerca del proprio spessore esistenziale. Da un
certo punto di vista Arlecchino è morto, appartiene a un passato che non torna.
Ma, sorprendentemente, nel corso della rappresentazione riecheggia anche il
racconto evangelico della risurrezione. La morte non è l'ultima parola, per
questo il drammaturgo Ken Ponzio e il regista Antonio Latella si sono presi la
briga di porsi di fronte a un testo tradizionale, onde constatarne a un tempo
la morte e la risurrezione. Non che questo miri a intendere meglio il discorso
goldoniano: non par questo il proposito. Si tratta piuttosto di smontare la
scena (il che effettivamente ha luogo nel corso della rappresentazione),
cercando verità nuova oltre la finzione teatrale. La limpida trama goldoniana
si frammenta fin quasi a dissolversi e a divenire poco più che un pretesto per
parlare non di Goldoni ma di come egli possa oggi parlare al suo pubblico. Soltanto
Silvio, il giovane innamorato di Clarice (figlia di Pantalone), mantiene il
cliché settecentesco nel modo di contenersi e vestire, venendo ad apparire patetico
e spaesato relitto. Tutti gli altri sono trascinati via nel vortice della
moderna ricerca d'identità. Tale tumulto si fa ben visibile nella scelta di
amplificare e dare risalto a piccoli spunti dell'originale, per presentare allo
spettatore l'amore incestuoso tra i due fratelli Rasponi e l'amore omosessuale
di Beatrice per Clarice. Non per nulla Beatrice, colei che sarebbe a un tempo
amante del (defunto) fratello e della sua promessa sposa Clarice, a un certo
punto non regge la tensione, esplode e si dissolve in pezzi. Il suo mondo
crolla. Si deve liberare quel che la tradizione ha ingessato, nella convinzione
che la "menzogna" teatrale rimanga mezzo idoneo per arrivare alla
verità, e che una fedeltà letterale faccia perdere all’opera tradizionale spessore
e ampiezza d'orizzonti. Dell'umorismo goldoniano non v'è traccia: anche il
sorriso può essere una maschera da gettare. Si ha invece l'impressione di
entrare in un tunnel. Ci si deve calare in quella zona oscura dell'esistenza,
che nella brillante costruzione goldoniana era al più abbozzata in qualche oscuro
fondale o quinta di scena. "Die Revolution ist die Maske des Todes. Der Tod
ist die Maske der Revolution": il dramma teatrale come (metafora della)
rivoluzione. Ma anche l'inverso. "La rivoluzione è la maschera della
morte, la morte è la maschera della rivoluzione". Nella circolarità di
questo asserto (tratto da Der Auftrag
- "La missione" di Heiner Müller) sta in fondo il programma del
lavoro di Ponzio-Latella. "Il Re è morto, viva il Re". Adesso
possiamo tornare a leggere Goldoni. E la conclusione è ancora la sua: "Ho
fatto una gran fadiga, ho fatto anca dei mancamenti, ma spero che, per rason
della stravaganza, tutti 'sti siori me perdonerà".
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