Zio Vanja

Zio Vanja, di Anton Cechov (adattamento di Gabriele Vacis e Federico Perrone, regia di Gabriele Vacis, teatro Metastasio, 3-7 febbraio 2010) è un testo denso, nel quale mille temi si intrecciano a tessere una trama tanto fitta quanto è a prima vista insignificante quel che sulla scena accade. Vien da domandarsi il perché del titolo, ovverosia il fuoco posto su Vanja quando, a ben vedere, altri personaggi godono delle medesime attenzioni. La risposta, non scontata né univoca, offre una possibile pista di lettura per una vicenda tanto poliedrica.
In un primo tempo (e questo appartiene all'antefatto), Vanja ha vissuto l'ideale, rappresentato dal servizio al professor Serebrjakov al quale, insieme alla nipote Sonia, ha dedicato tempo e fatiche.
In un secondo momento egli vive la disillusione: ciò per cui ha speso la parte migliore della sua vita si è rivelato inganno. Perché mai l'idolo è caduto? Lo scorrere del tempo e la presa di coscienza dell'incontrastato dominio della morte (tema assai sottolineato, anche grazie a qualche trovata scenografica) smaschera l'idolo, rivelandolo appunto come falsità. Intento a pascersi delle proprie convinzioni, la vita gli è scivolata via tra le mani. Ma adesso queste vogliono stringere qualcosa. Vanja tenta di aggrapparsi alla bellezza di Elena, la giovane moglie del professore. Perché una religione occorre, e anche la bellezza dei corpi può diventarlo. Ma la donna non è interessata a lui. Anche qui fallisce. L'anestesia si fa più urgente. Aleggia il demone del bere.
Questo precarissimo equilibrio salta in aria - e siamo alla terza fase - quando il professore avanza una proposta che porrebbe fine al mondo di Vanja: vendere la tenuta. Ciò scatena la sua rabbia furibonda, fino al tentativo (fallito) di uccidere il professore, e successivamente al progetto del suicidio. Il demone della distruzione ha ghermito anche lui.
Un tale trambusto induce il professore e la moglie a lasciare la tenuta in campagna per tornare in città. La vita di Vanja e degli altri torna a quei ritmi, noiosi ma rassicuranti, ai quali proprio l'arrivo della coppia cittadina l'aveva strappata. Ma ora, e siamo all'ultimo atto, si apre uno spiraglio. Grazie a Sonia, la nipote innamorata del brillante dottor Astrov ma da lui respinta per la ben più appariscente Elena: non potrebbe infine essere lei – che insieme alla governante evoca in qualche modo i semplici del Vangelo – la figura decisiva? Perché Vanja è per l'appunto zio Vanja, zio di Sonia. È lei a squarciare il cielo tenebroso che sino allora ha gravato sugli altri. In un colloquio con lo zio – e non si dovrebbe sottovalutare questa scena – riesce a intravedere che tutto, anche quanto sembra solo assurdità, noia e fatica, visto dal suo punto di arrivo, ovvero dal cielo, rivelerà un senso. E qui Vanja deve decidere, e con lui lo spettatore: se il ritorno ai vecchi ritmi segni semplicemente il ricorso a una nuova anestesia, o lo scorrere quieto dei giorni verso una speranza che finalmente traluce.

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