Frankenstein, Prometeo moderno

Frankenstein, o il Prometeo moderno: il romanzo scritto dall'inglese Mary Shelley nel 1818 continua a mostrarsi fecondo. Ne ha tratto ispirazione Stefano Massini, che ha scritto e diretto l'omonimo allestimento andato in scena al teatro Fabbricone in prima assoluta dal 5 al 17 maggio 2009. Il compito di un adattamento teatrale si presentava assai complicato ed è stato ben svolto, prima di tutto grazie all'abbondante uso di proiezioni che hanno creato atmosfere suggestive e conferito centralità alla creatura del dottor Victor von Frankenstein, e al suo volto. La lettura di Massini si propone di privilegiare proprio tale punto di vista, consentendo una originale presa di visione della problematica vicenda dello scienziato illuminista proteso verso l'impossibile meta della vittoria sulla morte. "Riprovàte!", ripete ossessivamente il giovane Victor ai medici che gli annunziano l'inutilità di ulteriori sforzi nella cura della madre oramai morente: un grido che rappresenta il motore psicologico dell'intero dramma. Nessuna rassegnazione di fronte alla morte. Oramai non è più consentito dire: "abbiamo fatto il possibile". La famosa visione del profeta Ezechiele, che vede ossa aride tornare a sostenere corpi viventi, non sarà più l'emblema dell'esclusiva capacità divina di salvare un uomo oramai consegnato irrimediabilmente alla dissoluzione, e diviene manifesto della prometeica volontà di lottare vittoriosamente con la morte. Davvero essa è madre della creatura animata dalle scariche elettriche dello scienziato. La fuga dalla morte, il tentativo di porsi in qualche modo al di sopra di essa, è motore di tanta parte dell'attività umana, se non di tutta. Il parto messo in scena all'inizio, nel quale Victor viene alla luce, è parto di una vita che nasce per la morte, esso stesso risposta alla morte da parte del padre, desideroso di un "erede": continuare la propria vita nel figlio è la prima, naturale risposta alla consapevolezza di essere in vita solo per il momento. La morte è madre della vita di tutti. E se la vita è vista come un libro che si sfoglia più o meno lentamente, l'uomo sta sempre di fronte alla domanda: "e la pagina dopo?". In questo sfogliare, mosso dalla febbre dell'oltre e dal miraggio di una conoscenza che finalmente metta al sicuro, ci si fa però sempre più consapevoli che esistere non è ancora vivere. Possiamo prolungare la vita; ma possiamo darci la vita? Perciò la creatura rimprovera il suo creatore, in una trasparente metafora che chiama in causa Dio stesso e lo trascina davanti al tribunale dell'umana infelicità: "solo se fossi stato stupido avrei potuto dirti "grazie!". Evidente l'attualità di simili problematiche, quotidianamente evocate nelle cronache medico-scientifiche dalle magnifiche sorti e progressive. Su questo attira la nostra attenzione la vicenda andata in scena. Semmai, si può dire dello spettacolo che è un po' come la creatura, risultato delle membra sparse di uomini e storie diverse: prospettive diverse, spunti molteplici, suggesioni abbondanti, non trovano composizione in un quadro e una proposta unitaria di lettura. All'uscita lo spettatore si sente un po', come la creatura, smembrato e ricomposto in una sintesi tutt'altro che armoniosa.

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