17 maggio 2009 - VI domenica di pasqua

Atti 10,25-27.34-35.44-48.
La lettura racconta un crocevia importante nel cammino del Vangelo: il momento in cui i pagani entrano nella Chiesa. L'incontro tra Pietro e Cornelio è preceduto da una laboriosa preparazione, della quale Dio si incarica sia presso Cornelio (10,1-8) che presso Pietro (10,9-23), rappresentanti dei due poli dai quali dovrà scoccare la nuova scintilla: i discepoli, portatori del Vangelo, e i pagani, di fronte ad esso ben disposti. Qui c'è già un messaggio: l'abbattimento della barriera che Dio ha costruito, la separazione d'Israele rispetto agli altri popoli, non può venire da altri che da Dio stesso. Non si tratta della personale iniziativa di nessuno, Pietro, Paolo o altri. Non è infatti un'abolizione ma un superamento; non implica la semplice distruzione dell'ordinamento precedente ma il suo compimento. Dio ha operato una scelta, una elezione: ha scelto Israele. Il fatto che "la salvezza venga dai giudei" (Gv 4,22) rimane perenne. Come mai Dio non si è rivolto direttamente a tutti i popoli? A prima vista sembrerebbe più logico: se destinatario della salvezza è ogni uomo, perché scegliere un popolo? 
L'universalismo cristiano può sembrarci oggi scontato. Pare banale dire che di fronte a Dio siamo tutti uguali, che lui "non fa preferenza di persone" (v. 34) e accoglie indistintamente tutti. A questa impressione si risponde anche facendo notare che proprio questo è un contributo cristiano passato, attraverso tante mediazioni, nel sentire comune. Inoltre, la nostra apertura alla famiglia umana è di solito più teorica che reale: quando si tratta di passare dal piano delle affermazioni astratte a quello della realtà concreta, l'apertura universale si scontra con una serie di chiusure e resistenze che rendono assai meno ovvio l'atteggiamento di Pietro e dei suoi. 
Ma la risposta più essenziale è un'altra. Una simile impressione di ovvietà nasce dall'ignoranza dell'"economia" divina, ovvero del modo di procedere di Dio in vista della salvezza: essa prevede sempre la diversità e la complementarietà dei ruoli. Paradigmatica in questo è la differenza sessuale. 
In un certo senso Dio non crea tutti uguali, tutti indistintamente interscambiabili. Questo non significa affatto che tutti non abbiano uguale dignità, che non siano ugualmente oggetto dell'amore di Dio. Ma imparzialità di Dio non è insignificanza dei cammini umani. Si ha spesso in mente una uguaglianza che livella. Dio vuole invece che nessuno possa salvarsi da solo, possa dirsi autosufficiente. Per questo esiste la differenza. A proposito del nostro problema possiamo dire: Israele ha bisogno, e lo avrà sempre, dei pagani; e i pagani hanno bisogno, e sempre lo avranno, d'Israele. Io mi salvo non da solo, ma attraverso l'altro. Imparzialità significa che tutti siamo uomini - "sono uomo come te", dice non a caso Pietro a Cornelio (v. 26), - e che Dio per tutti vuole la salvezza (cf. 1Tim 2,4); non significa per niente indistinzione e confusione. Sotto l'insistenza sull'uguaglianza tra gli uomini si cela spesso il completo disconoscimento delle differenze, causa ed effetto della massificazione e dell'individualismo (le due cose sembrano contrarie ma sono in realtà contigue: nella massa si è soli). La Chiesa stessa non è gruppo indistinto, dove tutti sono e fanno tutto, ma corpo ordinato e differenziato, dove tutti hanno pari dignità, ciascuno mantenendo la propria identità e differenza di fronte a Dio e agli altri. Questa è la vera uguaglianza. 
La pagina è dunque tutt'altro che scontata. Pietro, con la prima comunità giudeocristiana, ci mostra la sfida che la Chiesa continuamente è chiamata a raccogliere, tenendo dietro, a volte faticosamente, allo Spirito che nella storia irrompe a ricordarci l'amore di Dio per tutti e per ciascuno: trovare la salvezza nella comunione.

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