Il caso W.

Con Il caso W. di Rita Frongia, regia di Claudio Morganti (Prato, Fabbricone, 7-17 novembre 2019, prima assoluta) ci troviamo di fronte a una rilettura del Woyzeck di Georg Büchner (1813-1837), consistente non nella riproposizione di quel testo, del resto poco più di una bozza che richiede comunque massicci interventi a chi lo voglia rappresentare, ma nella ideazione di un suo complemento, una nuova sezione della vicenda, che è il processo penale. Lo spettatore è posto di fronte ad alcune fasi del dibattimento processuale, volte a stabilire se l'imputato sia sano di mente o meno, nel quale il soldato Woyzeck sarà condannato. Non si assiste però alla sentenza: dopo le arringhe conclusive delle rispettive parti, gli stessi spettatori sono chiamati ad essere giuria. L'esito è comunque dato: l'assassino e la sua vittima si avvieranno insieme nel buio cammino della morte. L'atmosfera spettrale e funerea domina d'altronde tutto il dramma, dramma di morte, amore e pazzia. Tutti temi che figurano in modo abbondante nella letteratura teatrale di tutti i tempi, echeggiata nella lettura proposta dalla Frongia, la quale – probabilmente sollecitata dalla cronaca attuale, tristemente ricca di «femminicidi» – ricompone come in un caleidoscopio molteplici frammenti e sollecitazioni, da Büchner e non. Il dibattimento si snoda fondamentalmente nel confronto tra due punti di vista che, per restare nella temperie di Büchner, potremmo definire rispettivamente «illuminista» e «romantico». Il primo è legato alla positività del fatto-omicidio, razionalisticamente ridotto a un blackout della ragione, per qualche breve momento oscurata e azzittita dall'insorgere prepotente della passione. Il secondo si connota per l'attenzione – quasi la simpatia – per il fenomento pazzia e per il pazzo, portatore di una serie di «ragioni» nuove e ignote, che lo rendono affine al poeta e al rivoluzionario. Già, perché c'è pure la pista politica, e il confronto tra istituzione e sovversione, tema di sicuro interesse per Büchner, che nella nativa Assia ebbe a subire la repressione politica per la sua attività a sostegno del movimento Friede den Hütten! Krieg den Palästen! («Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!») – slogan citato anche nel nostro dramma, in forma però modificata e anzi antitetica, posto com'è proprio sulla bocca del rappresentante del potere costituito, il giudice: «noi dobbiamo salvaguardare la pace nelle capanne e nei palazzi». A due secoli dal romanticismo e uno dalla psicanalisi, il problema della pazzia rimane ben arduo, e lo spettacolo non manca di notare come sia molto più contiguo alla normalità di quanto non si pensi… Ancor più quando s'incroci con la giurisprudenza, la quale non ha di meglio che affidarsi a «periti». Molto di più quando si trovi di fronte alla superficialità di chi, in vario modo, tratta l'uomo come un'anomalia da far rientrare in fretta nei propri schemi e una seccatura da sbrigare il più rapidamente possibile, onde tornare alle proprie occupazioni. Un «caso», appunto, nel quale il suo nome non conta più nulla, fino a scomparire.

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