tag:blogger.com,1999:blog-47511977886251138532024-02-24T21:18:28.603+01:00Il grano e la zizzaniaPensieri a zig-zag su granaglie, chicchi e granelli, di don Marco Pratesi, prete-di-Pratod. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.comBlogger405125tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-67600300296017549182022-11-01T09:24:00.002+01:002022-11-01T09:24:43.012+01:00Le Nozze<p> La scena del banchetto nuziale di Cechov realizzata da Claudio Morganti assomiglia un po' a quella dell'ultima cena: un ampio tavolo lungo il quale sono disposti i convitati. Solo che qui manca completamente un centro, in senso materiale e ideale. La rappresentazione si dipana in maniera del tutto priva di trama, nel susseguirsi (o meglio accavallarsi) dei discorsi dei vari personaggi, che vorrebbero essere un dialogo. Dico vorrebbero, perché in effetti non c'è nessun dialogo e ciascuno segue la propria linea in maniera autonoma, senza che mai ci sia vera interazione: una serie di cammini paralleli che mai s'incontrano. Non è difficile individuare per ogni personaggio il motivo conduttore, vedere su quale binario cammini mentre gli altri a loro volta, senza ascoltarlo, camminano sul proprio. La rappresentazione di persone che gesticolano chiuse nel proprio mondo è il cuore del dramma. Esemplare da questo punto di vista la figura del vecchio «generale» di marina, dall'udito oramai assai difettoso, che prosegue imperterrito nei propri discorsi in modo assolutamente impermeabile agli interventi altrui, fino a far deflagrare il già fragile equilibrio raggiunto tra i convitati. Nella rappresentazione non succede nient'altro, si arriva alla fine sapendo che la «festa» proseguirà senza che nulla cambi. Proprio in quanto mette in scena l'incapacità a comunicare, la rappresentazione assume spesso toni farseschi francamente divertenti; uno per tutti il personaggio del pasticciere greco. In ciò che ai singoli personaggi sta a cuore vi è pure qualche altra pennellata in altre direzioni, ma lo scrittore si concentra in modo lucido sul sovrapporsi di cammini che non s'incontrano, reciprocamente obliterandosi. Significativo che il quadro sia posto nel contesto di un banchetto nuziale: il tema dell'amore, ben presente in Cechov, anche qui non rinunzia a fare discretamente capolino. Ma una soluzione non c'è e, diversamente da altri drammi, non viene offerta nemmeno remotamente una possibile prospettiva. Avanti così, in ordine sparso, a un tempo insieme e in solitudine, vicini e lontani. Non occorre un grande sforzo per vedere la straordinaria attualità di questo testo nell'epoca della ipercomunicazione divenuta insignificante, della iperconnessione che si traduce in solitudine. E la farsa si fa amara. </p><p><i>Le Nozze, di Anton Čechov, traduzione di Vittorio Strada, regia di Claudio Morganti. Prato, Fabbricone, 26-30 ottobre 2022.</i></p>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-29254726148070025232022-10-12T15:10:00.005+02:002022-10-12T15:10:37.417+02:00Grief & Beauty<div>Spettacolo «pesante» <i>Grief & Beauty</i>, ma in senso positivo: fa sentire il suo peso. Basta osservare un attimo all'uscita gli spettatori, certamente pensierosi ma anche probabilmente sollevati dalla fine di quel confronto con la morte che normalmente si preferisce francamente scansare. Bisogna dunque dare atto a Milo Rau di un coraggio notevole nel chiamare il pubblico a un impegno del genere. Non si tratta infatti di uno spettacolo sull'eutanasia, pur se questo ne costituisce certamente un aspetto, ma sulla morte. Spettacolo originale, che si avvale in modo strutturale della commistione fra teatro e cinema (Rau è anche regista cinematografico), e felicemente mai approda all'ideologia, rimanendo sempre sul piano di una partecipe osservazione della vicenda umana. Gli stessi attori mettono in gioco la loro vita, la loro esperienza personale nello spettacolo, creando con il pubblico un circolo di sim-patia, tutti quanti con questo «fischio» dell'«essere-per-la-morte» persistente nell'orecchio. La parte migliore e più consistente dello spettacolo è dedicata al racconto di una umanità amante e dolente, in bilico tra dolore e bellezza, come del resto le arti hanno inteso da sempre fare. Esemplare da questo punto di vista il celebre (per chi frequenta il repertorio barocco), struggente e bellissimo lamento di Didone morente <i>When I am laid in</i> <i>earth</i> («Remember me!») nell'Opera <i>Dido and Aeneas</i> di Purcell, più volte risuonante sulla scena. La questione eutanasia pare meno ideologizzata che registrata (è il caso di dirlo). Lo spettatore è portato, al di là delle posizioni contrapposte, a fermarsi semplicemente davanti a una persona che sceglie di programmare tempi e modalità della propria morte. L'impetuoso torrente della morte viene per così dire imbrigliato e costretto nei limiti impostigli dalla moderna tecnica medica. Sotto questo aspetto non si sfugge all'impressione di una risposta alla questione morte che in definitiva si risolve in un suo imbellettamento, ossia nella costruzione di una serie di condizioni e motivi più o meno razionali per i quali si può morire «con il sorriso», dopo un sereno brindisi alla vita. «Ho riscaldato entrambe le mani al fuoco della vita; esso langue ed io sono pronto a partire» (Landor). <i>I did it my way</i> (e anche questa si ascolta). Se la cosa sia plausibile, ciascuno lo giudichi da sé. Registriamo soltanto che la vicenda di Gesù ci presenta un quadro ben diverso, ove la morte è vissuta con tensione altissima e l'agonia culmina (secondo <i>Matteo</i> e <i>Marco</i>) in un alto, potente, misterioso grido. Ma questo è uno spettacolo compiutamente post-cristiano, nel senso che la visione cristiana del morire e della morte non compare proprio, nemmeno in senso polemico. L'orizzonte è quasi interamente occupato dall'aldiqua. L'aldilà è presente con lievi tocchi, tra i quali la prospettiva più identificabile è l'analogia tra la morte e i cosmici «buchi neri» nei quali la materia tornerebbe al suo «stato primigenio»: così il materiale umano entrato nella morte potrebbe tornare – chissà – a una non meglio identificata condizione originaria. E così si esce dal teatro con l'irrefrenabile voglia di gridare a tutti: <i>Surrexit Christus, alleluia!</i></div><div><br /></div><div><i>Grief & Beauty</i>, regia di Milo Rau; testo di Milo Rau & Ensemble, con Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video); drammaturgia di Carmen Hornbostel; musica dal vivo Clémence Clarysse. Prato, teatro Metastasio, 8-9 ottobre 2022.</div><div><br /></div>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-53969044276344004272022-06-02T12:08:00.000+02:002022-06-02T12:08:32.049+02:00La profezia mariana di Fatima e la Russia<p> L'Ucraina è "terra di confine" e sconta l'urto fra due mondi.</p><p>Da un lato la divinizzazione del potere, la cui autorità proviene da una istanza superiore, come divina. Si pensi all'idolatria della nazione e della razza (nazismo), del "popolo" inteso come proletariato (marxismo). Putin si presenta come restauratore della grande Russia zarista. Egli incarna il potere divinizzato della nazione russa; divinizzato anche grazie al sostegno della Chiesa Ortodossa Russa (chiaramente al suo interno ci sono posizioni anche diverse). Egli è sostenitore dei valori tradizionali e della fede tradizionale del popolo russo. La grandezza della Chiesa e dell'Impero vanno di pari passo.</p><p>Dall'altro la funzionalità del potere, la cui autorità proviene da una delega da parte dei sudditi (rivoluzione francese). Il vero titolare dell'autorità è la singola persona, che sola dispone di se stessa in tutti i campi. Il potere ha assunto sempre più una funzione meramente tecnica, di funzionamento, non di guida, la quale comunque spetta ai singoli. Ciò determina l'allentamento della coesione sociale, fino al limite della dissoluzione. Nelle società occidentali si va affievolendo sempre più una ispirazione comune, un'anima; per cui tendenzialmente il corpo si decompone.</p><p>In Babilonia, la città senza Dio, i conflitti si possono risolvere unicamente con la forza (di tipo militare o più raffinata, rimane imposizione). Da questo scontro la Russia uscirà probabilmente perdente e ridimensionata. Rimangono più forti di prima: per l'oriente la Cina, per l'occidente la élite mondialista e massonica. Queste due realtà hanno in comune una visione dirigista: l'essere umano va diretto, non si può lasciare al singolo la guida della propria vita. Occorre un principio superiore al singolo, che permetterà il buon funzionamente dell'insieme. La società deve pertanto poter avere il controllo tendenzialmente totale sul singolo. In questo senso è una società collettivista, che ricorda (vagamente) il comunismo. In oriente c'è una lunga tradizione di autoritarismo. In occidente l'abbattimento di ogni autorità ha creato un dissesto sempre più ingestibile. Bisogna pertanto governare le masse dando loro l'illusione di essere libere. Tutto deve funzionare perfettamente bene; però senza Dio. Deve essere "fornito" anche accesso alla spiritualità, perché l'uomo ne ha bisogno. In essa tuttavia al centro non c'è Dio ma l'uomo. Su percorsi prestabiliti tutti svolgono una vita serena, organizzata e tranquilla sotto l'occhio discreto ma ben vigile di un governo (a volte) senza volto. In questo "nuovo mondo" l'alleanza tra Partito Comunista Cinese e élite mondialista non avrà più antagonisti.</p><p>Dal punto di vista della Chiesa cristiana, la scelta è: integrarsi o meno in questo sistema? Se non si integra, essa sarà sempre più perseguitata. La tolleranza non si estende infatti a chi nega il paradiso in terra e con ciò stesso smaschera la menzogna di chi lo promette. Ricordiamo le parole che la Vergine disse a Lourdes a Bernadette: "Io non ti prometto la felicità in questo mondo, ma nell’altro".</p><p>Se si integra, la Chiesa cristiana perde se stessa. La sua fede non è più una reale alternativa al mondo, ma solo una delle varianti della "spiritualità" anticristiana, interessata comunque solo alla realizzazione qui e ora: "io non ti prometto la felicità nell'altro mondo, ma in questo", direbbe Mefistofele.</p><p>Tuttavia, poiché l’universo "è creato in Cristo, e tutto sussiste in lui" (cf. Col 1,16-17), il tentativo di una società senza Dio perfettamente felice e funzionante è destinato eo ipso a fallire. Se non ci convertiamo, periamo (cf. Lc 13,3.5). Questo vale non solo a livello individuale. Ogni peccato immette una tossicità nell'atmosfera spirituale che non può non esprimersi, in modi anche imprevisti, e tradursi in guasti globali. In una società basata sulla menzogna (ingiustizia planetaria nord-sud, aborto, pensiero unico), ad ogni tentativo di chiudere le falle se ne aprono di nuove. Babilonia non potrà mai essere il luogo della pace vera. La profezia mariana, che si esprime in modo del tutto speciale a Fatima, ci ricorda questa verità, e più in particolare che inevitabile manifestazione del rifiuto alla conversione è la guerra, nella quale la falsa pace è chiaramente svelata.</p><p>Da Fatima viene una forte accentuazione del significato e del ruolo del cuore di Maria. Solo nel cuore - biblicamente il centro della persona, il suo nucleo più intimo - si può trovare la sintesi tra le due istanze autoritative. Evitando autoritarismo e soggettivismo, lo Spirito Santo è la legge nuova, non imposta dall'esterno ma scritta nel cuore, di Maria e di ogni altro uomo che lo accolga liberamente. La legge esiste, ma è interiore e determina una armonizzazione non solo degli uomini con Cristo, ma anche tra di loro. Gerusalemme si costruisce (e si ricostruisce) a partire dal cuore e dal suo primato. </p><p>Fatima ci dice che il Cuore Immacolato trionferà. Un fatto dirompente e sorprendente, perché esso non ha nessuna forza umana, è disarmato. Eppure le costruzioni umane, apparentemente inamovibili, di fronte ad esso crollano. Ci sarà dunque un nuovo progresso spirituale dell'umanità, un "grande balzo in avanti" dello spirito.</p><p>"I Russi sentono ciò che pensano; le loro verità, come i loro errori, sono sensazioni, stimoli, atti. In realtà essi non pensano, deflagrano. Ancora fermi allo stadio in cui l’intelligenza non attenua né dissolve le ossessioni, ignorano gli effetti nocivi della riflessione, così come quegli eccessi della coscienza nei quali quest’ultima diventa fattore di sradicamento e anemia". (E. M. Cioran, <i>La tentazione di esistere</i>)</p><p>Nel messaggio di Fatima la Russia ha un ruolo particolare. Per disinnescare i meccanismi di morte è chiesta la sua consacrazione al Cuore Immacolato e, viceversa, con il trionfo del Cuore Immacolato essa si convertirà. La Russia appare dunque come un elemento di primo piano nella storia del mondo. Direi che essa è un detonatore, fa esplodere le cariche rivoluzionarie della storia, fa emergere conflitti latenti, è causa scatenante di vasti processi storici. E' quello che è successo con la rivoluzione di ottobre e sta succedendo adesso. Per grazia di Dio, proprio la Russia sarà il luogo del grande segno dell'Immacolata, espressione della sua vittoria. Perché la Russia? Tema complesso, e la risposta piena si conoscerà soltanto alla fine del percorso di cui stiamo parlando. Credo tuttavia che la risposta abbia a che fare proprio con il cuore. A partire da Sergio di Radonez (XIV sec.), patrono della Russia, la spiritualità russa ha attinto alle sorgenti del cuore. Attraverso il suo discepolo Nil Sorskij si diffuse in Russia la preghiera del cuore, di cui ci raccontano i famosi «Racconti di un pellegrino russo». La spiritualità russa è profondamente impregnata dal tema del cuore, e intorno a questo credo ruoti la missione vera della Russia: intorno a questo si gioca la battaglia non solo della Russia, ma del mondo. L'Unione Sovietica ha creduto di avere la missione di portare il comunismo nel mondo. La Russia di Putin crede di avere la missione di opporsi al globalismo per riaffermare la grandezza russa e il multipolarismo. Infine, la missione sarà dare cuore al mondo.</p><p>All'alba del terzo millennio s. Giovanni Paolo II ha voluto inserire Sergio di Radonez nel Martirologio Romano. Con ciò ha evidentemente inteso chiamare la Russia nella "casa comune spirituale", la Chiesa una. Tra parentesi, non sarebbe stato male fare la medesima cosa anche nell'ambito politico, ovvero cercare di integrare la Russia in Europa e non di isolarla. A livello ecclesiale, l'apertura della Chiesa universale all'apporto della spiritualità russa rimane comunque un progetto da perseguire. </p><p>Al medesimo livello, occorre che i cristiani personalmente si consacrino al Cuore Immacolato della B. V. Maria. Esso è in sintonia con il Cuore di Gesù. Per salvarsi, si deve entrare in sintonia con il cuore della Vergine. Maria ci dice: "Per mettere al centro Dio, mettete al centro me. Se volete entrare in sintonia con il cuore di Cristo, entrate in sintonia con il mio cuore". L'affidamento e la consacrazione complessiva della Chiesa al Cuore Immacolato è già stata fatta. Bisogna che esso diventi ora un elemento personale. Nell'attesa - chissà - che ogni uomo segua questo cammino.</p>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-81892693790212437012022-02-08T12:12:00.005+01:002022-02-08T12:14:47.349+01:00Il Purgatorio. La notte lava la mente.<div>Due ore e qualcosa di immersione totale in Dante. La memoria dei 700 anni dalla morte del sommo poeta continua a rifrangersi oltre il limite cronologico del 2021. <i>Il Purgatorio. La notte lava la mente</i>, di Mario Luzi, drammaturgia di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, regia di Federico Tiezzi, è uno spettacolo per la massima parte consistente in una antologia dantesca che ripercorre il pellegrinaggio di Dante appena uscito dall'inferno fino alla cima della montagna del purgatorio e alla piena purificazione. È la scelta di Mario Luzi, come sempre schivo e restio a mettersi in mostra. Scelta che ha il vantaggio di evitare un difetto grave delle letture dantesche ordinarie, solitamente scolastiche, ovvero la frammentarietà della lettura che si perde in una serie di osservazioni, poco consentendo uno sguardo unitario del percorso, e dunque una presa d'atto del senso complessivo. Al contrario esso si squaderna limpidamente nel lavoro di Luzi che, c'era da aspettarselo, ne mette bene in luce il significato spirituale: si tratta di un pellegrinaggio, di una ascensione verso la luce, fino al fatidico passo del fiumicello Lete, definitivo addio alle passioni terrene che fin lì hanno movimentato il cammino, e all'incontro con Beatrice. Ascoltiamo anche l'insegnamento morale di Dante, così spesso – per scelta o meno – ignorato, che invece è essenziale. Ciò detto, non sembra sia alla portata di tutti trarre profitto da questa scelta piuttosto rude, ossia intendere il testo dantesco, pur mirabilmente recitato dagli attori, in primis Sandro Lombardi (che di Luzi è stato amico), che interpreta Dante. La cosa presuppone una padronanza del linguaggio della Commedia che invero par di pochi. Ma speriamo di sbagliarci. Come si accennava, Mario Luzi fa parchi interventi, con liriche in parte scritte in precedenza, in parte per l'occasione. Del primo gruppo è quella che dà il titolo all'opera, <i>La notte lava la mente</i>, pubblicata in <i>Onore del vero</i> nel 1957. Del secondo due liriche che segnano rispettivamente l'ingresso nel purgatorio e nel paradiso terrestre. Onde favorire la comprensione dell'operazione si sarebbe desiderato una più evidente differenziazione degli interventi di Luzi, che invece appaiono alquanto indistinti e fusi nell'insieme. Efficace la resa scenica, piena di fantasia nell'affrontare e vincere la sfida di un testo a un tempo massiccio ed etereo, con l'ausilio di quattro tavoloni mobili e molti effetti di luce. Fondamentale l'apporto della musica, la musica del Purgatorio così dolente e malinconica, ma anche piena di speranza (solo rumori ci sono nell'Inferno, nel Paradiso altra sarà la musica). Proprio al Fabbricone il lavoro di Luzi – del 1989 – era già stato messo in scena nel 1990. Riconoscimento pieno e gratitudine a chi ancora una volta ha avuto il coraggio di riproporre Dante in un gagliardo corpo a corpo, faticoso ma fruttuoso. Con lo sguardo di un moderno pellegrino dell'Assoluto.</div><div><i>Il Purgatorio. La notte lava la mente</i>, di Mario Luzi, drammaturgia Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, regia Federico Tiezzi, Prato, Teatro Fabbricone, 26.1 – 30.1.2022</div><div><br /></div><div><br /></div>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com059100 Prato PO, Italia43.8777049 11.102228-10.338612138855531 -59.210272 90 81.414728tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-83885402675125394492020-02-20T08:02:00.003+01:002020-02-20T08:02:37.580+01:00Circo KafkaLa grande letteratura non smette di fornire spunti per letture e riletture. Così è per <i>Il Processo</i> di Kafka, tra i testi più significativi del Novecento, che <i>Circo Kafka </i>intende portare in scena con modalità certo originali, ossia in assenza quasi totale di parola, mediante il ricorso al semplice gesto e al suono. Lo spettacolo, estremamente sobrio, ripercorre la sostanza della vicenda del romanzo con risultato sorprendentemente intenso. La potenza della suggestione sarebbe stata probabilmente ancora maggiore eliminando anche l'unica tirata verbale, centrata sulla questione della «catena», l'ingranaggio che stritola inesorabilmente il povero protagonista. La scelta di privare l'attore (unico, interpreta tutti i ruoli) della parola, se da un lato è ovviamente una sfida per l'attore stesso (che Roberto Abbiati vince in scioltezza), dall'altro è una sfida per il pubblico, che viene stanato e costretto a uscire dal comfort verbale per avventurarsi a mobilitare le proprie risorse simboliche nell'interpretare, decifrare e ricostruire il senso dei vari gesti e suoni. In fondo la parola può essere una trappola, dando l'illusione di una comprensione che in realtà rimane in superficie. Tema quanto mai attuale oggi, quando la parola è sovrabbondante, addirittura straripante, al punto da determinare alla fine la mancanza di comunicazione, non solo con l'altro ma anche con sé. L'uomo di oggi rischia di rimanere del tutto privo della capacità simbolica, ossia della possibilità di leggere la realtà come un segno, una parabola (e si noti che la nostra «parola» ha il suo etimo proprio nella «parabola»), per farne un semplice dato di fatto, un guscio vuoto di significato.<br />
La scelta di rinunciare alla parola evidenzia inoltre, felicemente, il disperato isolamento del protagonista, che non riesce a comunicare: né a ricevere adeguata notizia del reato a lui contestato né a farsi ascoltare e difendersi. Intendiamoci: la vicenda va ben al di là della questione, pur importante, dell'amministrazione della giustizia (il manichino in scena ricorda il nostro caso Cucchi): Josef è ogni uomo, ciascuno di noi, chiuso in un ingranaggio del quale non riesce a trovare il senso e che alla fine lascia davvero senza parole. Non è un caso che proprio nel silenzio lo spettacolo riesca a farci entrare in empatia col suo (e nostro) dramma. È il dramma già del Novecento, che il nostro Duemila non trova di meglio che seppellire sotto un pirotecnico flusso di parole senza peso – ed è davvero un circo – con l'unico risultato (e scopo) di impedire il confronto con noi stessi e di mascherare il nulla che sta dietro e dentro.<br />
Ben venga dunque questo teatro di gesto e di suono a farci fermare; a restituire al silenzio il posto d'onore che gli spetta; a far recuperare capacità simbolica ed empatia; a metterci nuovamente a confronto con la questione della parola-significato-ragione che da sempre lo stesso eterno <i>Logos</i> continua instancabilmente a porre e riproporre nel cuore dell'uomo. Se lo vogliamo ascoltare.<br />
<i>Circo Kafka, con Roberto Abbiati e la partecipazione di Johannes Schlosser; regia Claudio Morganti. Prato, teatro Magnolfi, 11-23.2.2020.</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-83075985496640875272020-02-17T17:07:00.005+01:002020-02-17T17:11:58.223+01:00Nostalgia di Dio«Nostalgia» è, come si sa, dolore del ritorno, sentimento di chi è lontano dalla terra dei padri e dalla casa. Tutti ci siamo dentro fino al collo, al punto che la nostra vita e i nostri comportamenti – lo sappiamo o meno – ne sono interamente determinati: vogliamo tornare a casa. Ma esattamente dove? «Patria» e «casa» che cosa, e dove sono? Il punto è questo: non lo sappiamo affatto bene. Ci confonde il fatto che questo misterioso punto di partenza e di approdo faccia capolino e si declini in una miriade di situazioni ed esperienze, tra le quali lo spettacolo mette in evidenza soprattutto l'elemento famiglia e figli. Tra le tante suggestioni vale la pena ricordare, ancor più per chi ha appena celebrato il Natale, quella del Dio-bambino: un bambino capriccioso, che crea quasi per gioco. Una simile idea è presente in molte tradizioni religiose e nella stessa tradizione cristiana, la quale ne ha certo escluso ogni elemento d'irragionevolezza e arbitrarietà. Il bambino di Betlemme è anzi l'incarnazione del Logos, niente di meno che il senso universale. Rimane comunque un senso che ci supera e pertanto, vista dalla nostra parte, l'esperienza umana assume non di rado i caratteri di una (almeno apparente) assurdità, che ciascuno s'impegna a suo modo a decifrare (detto fra noi: l'incarnazione del Logos «serve» per l'appunto a consentire la corretta decriptazione del reale). Ognuno dei quattro personaggi in scena è quindi impegnato, in un contesto di assoluta ferialità, in una propria sfida, una partita a tennis nella quale il reale rispedisce costantemente la palla nel nostro campo. Il tema gioco si coniuga con la metafora tennistica: da Pindaro/Veronesi («un dio ti guarda, Ierone») a Wallace («Federer come esperienza religiosa»), nei suoi campioni lo sport fa balenare qualche bagliore della superiore padronanza divina, brandello di trascendenza che continua ad affascinare pure troppo i nostri contemporanei. Simona, maestra innamorata dei bambini e desiderosa di procrearne uno, scruta l'infanzia e la sua (di Simona e dell'infanzia) possibile relazione col divino. Francesco, padre separato, vive il dolore della perdita, qualunque perdita, particolarmente della famiglia e degli affetti, ovvero della possibilità di esistere per qualcuno. La ex moglie, Cecilia, «ricercatrice umanistica», appare impegnata a scrutare l'essere, nella sua dimensione di peso e suono. Paradossalmente, il personaggio che appare più convenzionale e meno esplorato nel suo spessore umano e spirituale è Alfredo, il prete, piuttosto rinchiuso nel suo ruolo. I temi toccati sono molti, forse troppi per consentire un approfondimento. La cosa va però a vantaggio di una perfomance brillante, addirittura divertente, che conduce lo spettatore con leggerezza e ironia fino all'<i>happy ending</i>, l'abbraccio finale dei quattro: nonostante tutto, siamo insieme.<br />
<i>Nostalgia di Dio. Dove la meta è l'inizio, testo e regia Lucia Calamaro, Prato, Il Fabbricone, 9-12.1.2020</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-32853585457626663482019-12-18T17:10:00.000+01:002019-12-18T17:10:06.725+01:00Il Gabbiano<br />
<div>
Succedono moltissime cose - un mondo di cose - in questa «campagna nella quale non succede mai nulla» che è ambiente del <i>Gabbiano</i>. Il talento di Cechov ci squaderna una quantità di dinamiche nelle quali non si tarda a riconoscere la quotidianità in cui siamo immersi. I personaggi si muovono e si agitano senza sosta e senza poter trovare requie, alla ricerca di qualcosa che non solo non trovano, ma nemmeno sanno esattamente che cosa sia. Unica cosa certa è l'affanno. <i>Stat crux dum volvitur orbis</i>: l'antico motto certosino («la croce sta ferma mentre il mondo gira»), di per sé ben distante dal mondo di Cechov, sembra tuttavia offrire una chiave di lettura quanto mai calzante (prescindendo qui dalla sua esatta esegesi). In mezzo al turbinio delle azioni e delle passioni, l'unica realtà che rimane ferma e costante è - per tutti - la croce; o se vogliamo, in termini più cechoviani, il fallimento. Ciò nonostante, Cechov non è un nichilista. Egli propone comunque un'apertura di credito alla vita e al suo senso, apertura che, se non è esplicitamente cristiana, si serve pur tuttavia, nel decisivo ultimo monologo di Nina, di una terminologia chiaramente cristiana. Perché Nina, soprendentemente, alla fine parla di croce, di fede, di pazienza, di vocazione. «Gabbiano» è ogni uomo, assurdamento colpito dalla vita e quasi abbattuto nel volo delle sue speranze e sogni. Certo, prima di tutto sono gabbiano Nina, ella stessa lo afferma in modo esplicito, e Konstantin, che assume l'animale a simbolo del suo prossimo stato di morte. In effetti sono questi anche i personaggi polarmente opposti e attraenti, vicini e lontani, che meglio paiono esprimere l'essenza del dramma: l'una che in qualche modo trova una strada, l'altro che come unica risposta sa trovare soltanto la (propria) morte; l'una che, dopo un percorso faticoso partito dall'abbagliante fascino del successo e della notorietà, arriva a confermare il suo amore, per quanto infelice, e la sua fiducia nella vita; l'altro che invece non riesce a trovarle un senso, fino a rifiutarla. In mezzo a questi due opposti si muovono gli altri personaggi, ciascuno nel proprio labirinto, ciascuno con i suoi problemi e le sue soluzioni, comunque insoddisfacenti. Particolarmente attuale l'attrice-madre Irina, precorritrice degli odierni adulti eternamente giovani che, rubando il posto ai giovani veri, ne frenano la maturazione. Che cosa dunque rimarrà alla fine, dopo che i secoli saranno passati e le vite spente? Nel «teatro nel teatro» scritto da Konstantin si fa appena in tempo a intravederlo: non il niente, come qualcuno (Sorin) vorrebbe, ma una misteriosa vittoria sul male, i cui precisi contorni ci sfuggono. Il dramma infatti, distrutto dal suo stesso autore, è oramai andato perduto per sempre, e l'interrotta rappresentazione non sarà mai più ripresa. Rimane però il teatro (in senso materiale e non). Nessuna «morale a buon mercato» e pronta all'uso: a ciascuno il compito di proseguire nella ricerca.</div>
<div>
<i>Il gabbiano, di Anton Cechov; adattamento e regia di Licia Lanera; Prato, Teatro Metastasio, 11-15.12.2019 [Guarda come nevica 2.]</i></div>
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-57633851688868871782019-12-09T14:58:00.000+01:002019-12-18T17:10:22.647+01:00AntigoneClassico fra i classici, Sofocle mantiene intatta la capacità di stupire. Non solo per la bellezza abbagliante della poesia e la sapienza delle costruzioni ma, in primo luogo, perché il primo a stupirsi è proprio lui. Non sarebbe esagerato dire che lo stupore sta alla scaturigine del suo teatro. Stupore di fronte all'uomo e alla sua condizione singolare nel mondo. Non per caso l'elogio dell'uomo nel primo stasimo dell'<i>Antigone</i> è uno dei brani giustamente più celebri della letteratura occidentale. Stupore di fronte a questa «meraviglia terribile» capace di grandi cose e di meschinità, di varcar mari e di rimaner chiuso in spazi interiori angusti. Certo, se Sofocle avesse veduto il successivo cammino dell'umanità, con le sue conquiste strabilianti e le sue ideologie assassine, non avrebbe potuto che costatare la giustezza della propria intuizione. Ideologia: emerge qui probabilmente la parola chiave di questo difficile dramma che è l'<i>Antigone</i>. Difficile perché, come tutte le grandi creazioni, tende a sfuggire alle letture univoche e al <i>fast food</i> culturale, sempre in agguato, e sempre di nuovo ci mette nella scomoda posizione di dover ripartire. Non per caso si esce da questo spettacolo quasi ammutoliti. Mutismo salutare, che non è piattezza ma sovrabbondanza di pensiero e sentimento. Ideologia, si diceva. In effetti, sia Creonte che Antigone, pur su fronti opposti, sembrano accomunati da una devozione illimitata al sistema di idee al quale aderiscono, ed è proprio questa cieca devozione il loro punto di forza, quello che ne fa persone eccezionali e personaggi per eccellenza «tragici»; ma anche il loro punto debole, quello che alla fine li conduce a infilarsi in vicoli ciechi, nei quali avrà la parola ultima la morte e l'afasia, l'assenza di ogni parola possibile (lo suggerisce la scena conclusiva). Sordi ad altre istanze, radicalizzano le opposizioni, rimanendo alla fine travolti da quella forza misteriosa che, dentro la storia, infallibilmente e implacabilmente si oppone a un simile protervo tentativo.<br />
L'allestimento è davvero minimale, mostrando bene la volontà di mettere al centro il testo sofocleo, che di certo lo merita, e affidando interamente agli attori il compito di rappresentarlo al vivo, prova che essi superano molto bene; notevoli in particolare Oscar De Summa (Creonte) e Marcello Sambati (il corifeo). Anche la scelta dei costumi appare tutto sommato plausibile, mettendo in ulteriore luce l'elemento «ideologia». Sarebbe davvero dissennato pensare che la conclamata fine delle ideologie ci abbia messo oramai al sicuro (detto di passaggio, le stesse religioni possono condurre nella gabbia ideologica). In questi nostri tempi così poco propensi alla riflessione pacata, nichilisti da un lato e spavaldi dall'altro, un grazie a chi con passione e competenza ha voluto proporci uno spettacolo francamente bello, senza fronzoli, che va diritto al cuore del problema: il nostro cuore.<br />
<i>Antigone, di Sofocle; uno spettacolo di Massimiliano Civica. Prato, Il Fabbricone, 28.11-8.12.2019</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-46787311265274986992019-11-22T07:40:00.003+01:002019-11-22T07:40:57.135+01:00Il caso W.<div>
Con Il caso W. di Rita Frongia, regia di Claudio Morganti (Prato, Fabbricone, 7-17 novembre 2019, prima assoluta) ci troviamo di fronte a una rilettura del Woyzeck di Georg Büchner (1813-1837), consistente non nella riproposizione di quel testo, del resto poco più di una bozza che richiede comunque massicci interventi a chi lo voglia rappresentare, ma nella ideazione di un suo complemento, una nuova sezione della vicenda, che è il processo penale. Lo spettatore è posto di fronte ad alcune fasi del dibattimento processuale, volte a stabilire se l'imputato sia sano di mente o meno, nel quale il soldato Woyzeck sarà condannato. Non si assiste però alla sentenza: dopo le arringhe conclusive delle rispettive parti, gli stessi spettatori sono chiamati ad essere giuria. L'esito è comunque dato: l'assassino e la sua vittima si avvieranno insieme nel buio cammino della morte. L'atmosfera spettrale e funerea domina d'altronde tutto il dramma, dramma di morte, amore e pazzia. Tutti temi che figurano in modo abbondante nella letteratura teatrale di tutti i tempi, echeggiata nella lettura proposta dalla Frongia, la quale – probabilmente sollecitata dalla cronaca attuale, tristemente ricca di «femminicidi» – ricompone come in un caleidoscopio molteplici frammenti e sollecitazioni, da Büchner e non. Il dibattimento si snoda fondamentalmente nel confronto tra due punti di vista che, per restare nella temperie di Büchner, potremmo definire rispettivamente «illuminista» e «romantico». Il primo è legato alla positività del fatto-omicidio, razionalisticamente ridotto a un blackout della ragione, per qualche breve momento oscurata e azzittita dall'insorgere prepotente della passione. Il secondo si connota per l'attenzione – quasi la simpatia – per il fenomento pazzia e per il pazzo, portatore di una serie di «ragioni» nuove e ignote, che lo rendono affine al poeta e al rivoluzionario. Già, perché c'è pure la pista politica, e il confronto tra istituzione e sovversione, tema di sicuro interesse per Büchner, che nella nativa Assia ebbe a subire la repressione politica per la sua attività a sostegno del movimento Friede den Hütten! Krieg den Palästen! («Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!») – slogan citato anche nel nostro dramma, in forma però modificata e anzi antitetica, posto com'è proprio sulla bocca del rappresentante del potere costituito, il giudice: «noi dobbiamo salvaguardare la pace nelle capanne e nei palazzi». A due secoli dal romanticismo e uno dalla psicanalisi, il problema della pazzia rimane ben arduo, e lo spettacolo non manca di notare come sia molto più contiguo alla normalità di quanto non si pensi… Ancor più quando s'incroci con la giurisprudenza, la quale non ha di meglio che affidarsi a «periti». Molto di più quando si trovi di fronte alla superficialità di chi, in vario modo, tratta l'uomo come un'anomalia da far rientrare in fretta nei propri schemi e una seccatura da sbrigare il più rapidamente possibile, onde tornare alle proprie occupazioni. Un «caso», appunto, nel quale il suo nome non conta più nulla, fino a scomparire.</div>
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-37739630143759514062018-04-11T15:23:00.001+02:002018-04-11T15:26:50.797+02:00Il Vangelo di don Lorenzo«Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa nella cruna di un ago». In questa frase, pronunziata da don Lorenzo Milani poco prima di morire, si può senz'altro comprendere l'intera parabola della sua intensa vita. Si tratta di un «signorino», un agiato borghese che decide di prendere sul serio il Vangelo e i suoi paradossi, e su questa scommessa si gioca tutto, divenendo scomodo per sé e per gli altri - tutti, oggi come allora, cristiani e laici, di sinistra e di destra, ricchi e poveri. Sì, scomodo anche per i poveri, chiamati a uscire dalle varie obbedienze e mode imposte dai vari tempi per divenire attivamente costruttori di futuro. Un personaggio che non si lascia utilizzare strumentalmente da nessuno - qualcuno ha felicemente parlato di «folgorante equidistanza» - e che ancora oggi solleva una serie di fondamentali questioni. Lo spettacolo riesce a rendere pensoso lo spettatore, posto dinanzi alla vicenda del priore in tutta la sua complessità e ricchezza. Si rimane positivamente sorpresi dall'equilibrio col quale essa viene presentata. Pare chiaro che l'intento non è quello di proporre interpretazioni proprie e letture più o meno contorte del fenomeno don Milani, magari usato come trampolino per proprie campagne e propagande. La stessa realtà ecclesiale non diviene, come spesso ahimé accade, oggetto di facili critiche e sdegnose quanto (in genere) redditizie denunce - l'oramai fin troppo scontato lancio di pietre da parte dei nuovi farisei - ma è presentata nella sua realtà complessa e articolata, se si vuole contraddittoria. Anche in questo lo spettacolo è rimasto fedele a don Lorenzo che, con tutte le sue critiche, non ha mai smesso di credere in questo inspiegabile fenomeno che è la chiesa (altro gran paradosso evangelico). La scena rimane aperta a lungo, ma è una lunghezza ampiamente giustificata dalla ricchezza del materiale offerto, frutto di una ricerca che dà sicuramente la possibilità di conoscere meglio un personaggio spesso filtrato solo attraverso slogan e semplificazioni e talora messo (impensabilmente) a servizio del politicamente corretto. Alieno da intellettualismi arzigogolati, lo spettacolo ha il sapore della vita, ed è questo un altro tratto tipico di don Milani, che ha sempre rifiutato una cultura fine a se stessa, che non sia dialogo costante con la concretezza dell'esistenza. Unico appunto, forse il titolo non sarebbe piaciuto a don Lorenzo: «il Vangelo secondo Lorenzo»… No - avrebbe probabilmente detto con la sua solita intransigenza - questo non è il Vangelo secondo me: è il Vangelo! Comunque, un bello spettacolo. Il nutrito corpo degli attori, grandi e piccoli, dà l'impressione di essere entrato in consonanza con il priore per sentire e soffrire con lui, e riesce a consegnare al pubblico un messaggio che vale la pena ascoltare e riascoltare. «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio»: per entrare nel Regno si ha da lasciare molto. Un miracolo, che può fare soltanto quel Cristo al quale don Lorenzo ha inteso consegnare totalmente la propria vita.<br />
<i>Vangelo secondo Lorenzo, di Leo Muscato e Laura Perini, con Alex Cendron nella parte di Lorenzo Milani, regia di Leo Muscato; Prato, Teatro Metastasio, 4-8 aprile 2018.</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-69913821879467978762017-11-26T07:27:00.000+01:002017-11-26T07:27:07.630+01:00C'è bisogno di luce!«Lasciami almeno accesa una lampadina, per vedere dove metto i piedi!». Alla fine del suo tormentato percorso alla ricerca di luce, Pirandello deve costatare che tutto quanto possiamo chiedere è appunto - si tratta della battuta che chiude l'intera «commedia da fare» (tale rimasta fino alla fine) - almeno una lampadina per muovere qualche passo nell'immediato. Con felice intuizione la restituzione scenica di Luca De Fusco s'impegna a distinguere proprio mediante la luce (ivi comprendendo anche il ricorso alla proiezione video) i due piani che sostanziano la elaborata trama pirandelliana: il piano della «realtà» e quello della «finzione» teatrale, quello della persona e del personaggio. Le libertà che si prende la resa scenica non disturbano affatto, aiutando anzi la concentrazione sull'essenziale. Noi non conosciamo né noi stessi né gli altri: questo è il dramma. Non mi pare che la commedia sia una riflessione sul teatro, o quanto meno tale riflessione è soltanto secondaria. Il punto è la vita, questa matassa intricata nella quale - per qualche misterioso equivoco - pur non volendolo si riesce a far male a sé e agli altri, non riuscendo a far conoscere sé all'altro né a conoscere l'altro. I confini tra realtà e illusione si perdono. Quanto dovrebbe esser fittizio - il personaggio (teatrale) - diviene molto più nitido di quanto dovrebbe essere reale (la persona), in quanto bloccato e fissato nell'atto che lo definisce appunto come personaggio. La finzione teatrale diviene così una illuminazione, che però è paradossalmente rivelazione di una tenebra. Ci sia data almeno una lampadina, perché qualche passo lo si dovrà pur muovere! Il teatro di Pirandello non pare andare oltre, consistendo in una lucida analisi che porta in sé un'acuta domanda di luce, tuttavia senza risposta. «Vanità delle vanità» direbbe Qohelet: la vita umana non assomiglia a un rincorrere il vento? Per la Bibbia però una lampadina c'è: «Lampada per i miei passi è la tua Parola», Signore, dice il salmo. Una lampada che pur tuttavia non illumina l'intero orizzonte, ma solo lo spazio circostante. Tante domande rimangono, e la fede rischiara con una luce crepuscolare (o meglio aurorale) che lascia ancora molte questioni aperte. Essa però si affida a Colui che con lo sguardo abbraccia l'intero panorama dell'esistente. Nella luce aurorale della fede è superata sia la pretesa del pieno dominio razionale sulla realtà, sia la resa nichilista del sospetto a oltranza. In due righi, con il cardinale Newman: <i>Keep Thou my feet; I do not ask to see / The distant scene; one step enough for me</i> (guida i miei passi; non chiedo di vedere il lontano orizzonte: mi basta un passo). Grandezza della fede. E grandezza della ragione che, quando è onesta, non smette di riportarci al medesimo punto: c'è bisogno di una lampadina!<br />
<i>Sei personaggi in cerca d'autore, di Luigi Pirandello. Regia di Luca De Fusco, coproduzione Teatro Stabile di Napoli - Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova. Prato, Teatro Metastasio, 16-19 novembre 2017.</i><br />
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-35712216616323720452017-11-13T08:37:00.001+01:002017-11-13T08:37:39.037+01:00Un mistero a due facceAl cospetto della morte, si prende posizione di fronte alla vita. La commedia di Spiro Scimone, tutta giocata su due coppie che si muovono intorno a due tombe «a due piazze», è una delle infinite declinazioni del mai esaurito tentativo di decifrare l'unico mistero a due facce di vita e morte. Si può anche dire: al cospetto della morte, si prende posizione di fronte all'altro. Amore e morte, allora, un classico qui indagato - sia pure con levità - nella caratteristica emersione di una serie di elementi, latenti finché la vita si presenta come successione indefinita e talora sonnacchiosa di tempi; elementi che invece escono alla scoperto nella prossimità - cronologica e esistenziale - della morte. Allora le parolacce fino a quel momento solo pensate si proferiscono ad alta voce. Non solo: anche le parole d'amore, con quegli atteggiamenti che definiscono chi non può più permettersi il lusso di avere paura o vergogna di esprimere il proprio sentimento, semplicemente perché il tempo scorre. Da giovani ci si può permettere di non parlare, da vecchi no; giovani si può rimanere indefiniti, vecchi no. Il vecchio non è affatto uno che «ha già fatto tutto», come facilmente si pensa, al contrario: gli resta da fare qualcosa di essenziale: precisare se stesso, in particolare rispetto all'altro. La commedia sottolinea l'eros come forza vitale. Un eros oramai libero dalle minacciose fiamme delle sue potenzialità sconvolgenti e addirittura distruttive (le cronache sono eloquenti); un eros che si esprime in modi prima impensabili, persino paradossali agli occhi del pensiero unico giovanilistico. Intendiamoci: si tratta di un segmento, di un frammento di realtà, che sarebbe insensato assolutizzare. La commedia vi si concentra in modo esclusivo, estromettendo ogni altra visuale. Pregio e difetto: concentrazione o parzialità, brevità o incompiutezza. Rimane il mistero di un silenzio che ci attende. Ma chissà, forse anche in e oltre esso risuonerà una parola. Meglio allora attenderlo mano nella mano. Perché quella parola potrebbe davvero essere proprio «amore».<br />
<i>Amore, di Spiro Scimone, regia di Francesco Sframeli, produzione Compagnia Scimone Sframeli in collaborazione con Théâtre Garonne Toulouse. Prato, Teatro Fabbricone, 9-12 novembre 2017.</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-24936896792819834282017-11-03T10:50:00.004+01:002017-11-03T10:50:49.201+01:00Richard II: il dramma di governareNell'approccio a un testo, due sono i poli entro i quali si oscilla: l'oggettivo e il soggettivo. Si può privilegiare ciò che si ha di fronte, cercando di cogliere e accogliere il testo in se stesso, così come offerto; si può mettere maggiormente in luce colui che sta di fronte al testo, la sua risposta, il suo modo d'intenderlo. Per quanto i due atteggiamenti siano sempre inevitabilmente compresenti, l'esaltazione contemporanea del soggettivo conduce di solito a una preponderanza, a volte smisurata, del soggettivo. Nel caso del Richard II di Peter Stein siamo invece di fronte a una felice eccezione, a uno spettacolo dove al centro sta effettivamente Shakespeare e il suo dramma. Anche la scelta di far rappresentare re Riccardo da una donna, la brava Maddalena Crippa, non dà luogo a quelle - fin troppo oggi prevedibili e peraltro stucchevoli - questioni sull'ambiguità sessuale e analoghi: segnala piuttosto una presenza speciale, che lascia emergere in modo inconfondibile il protagonista in mezzo a una dramma di (pressoché) soli uomini. Riccardo II, dunque. Figura singolare, paradossale nel doppio ritmo della sua esistenza: gloria e caduta, grandezza e miseria. Un primo livello di lettura è politico: la questione dell'autorità e della sua fondazione. Da sempre tema dibattuto, solo apparentemente risolto nelle varie epoche (compresa la nostra). In mezzo al rutilante, ricchissimo diluvio poetico dell'inarrivabile linguaggio di Shakespeare emerge però - né può essere diversamente per un par suo - semplicemente la questione dell'uomo, di ogni uomo, dal re al suo stalliere. Per l'interpretazione del dramma mi pare centrale il monologo del re, oramai deposto, imprigionato e prossimo alla fine. Il problema pare proprio che questo re - che è l'essere umano, ogni essere umano - non è in grado di governare la realtà, né quella fuori né quella dentro di lui, e risulta sempre «fuori tempo», non riuscendo a inserirsi armonicamente nella musica del reale, e alla fine sbattuto giù dai troni, più o meno visibili, che prova a costruirsi come può. Tentativo che produce sempre a sua volta la controreazione degli altri, essi pure variamente pretendenti al trono. Così ai piedi del nuovo astro nascente, il re Enrico IV, si accumulano i guanti della sfida tra le fazioni politiche: la lotta continuerà, producendo di volta in volta vincitori e vinti, e vincitori che divengono vinti. Come Riccardo: Shakespeare ci porta dentro la sua anima per portarci dentro la nostra. E scoprirvi al tempo stesso la coscienza acuta di una missione regale, della magnificenza dell'essere uomini; e la sorpresa di scoprirsi infinitamente piccoli e insufficienti. Perplesso, il re citerà due frasi evangeliche (le uniche nel dramma), solo apparentemente in contrasto: nel Regno, quello vero, attraverso la stretta cruna dell'ago non entrano i ricchi, ma solo i piccoli. Forse allora c'è una speranza: per Riccardo, per ciascuno.<br />
<i>Richard II, di William Shakespeare. Teatro Metastasio, 21-29 ottobre 2017. Traduzione Alessandro Serpieri; riduzione e regia Peter Stein, con Maddalena Crippa, etc.; produzione Teatro Metastasio di Prato.</i>d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-22843936107034966602017-04-13T07:19:00.001+02:002017-04-13T07:19:19.982+02:00Una caricatura della fede cristianaDa <i>Laika</i> (uno spettacolo di e con Ascanio Celestini; alla fisarmonica Gianluca Casadei, produzione Fabbrica srl, co-produzione RomaEuropa Festival 2015 e Teatro Stabile dell’Umbria. Prato, Teatro Metastasio, 6-9 aprile 2017) si esce frastornati e perplessi. Frastornati dal copioso profluvio verbale di questo teatro di narrazione; perplessi per la superficialità con la quale vi si affrontano le tematiche religiose e specificamente cristiane. C'imbattiamo in temi come preghiera e santi, processi di canonizzazione e miracoli, origine dell'universo, demonio, male e indifferenza di Dio, relativismo e dogmatismo. E altro. Già da questa sommaria elencazione appare come per affrontare in poco meno di due ore temi di questo calibro occorrerebbe una capacità - non solo artistica, ma filosofica e teologica - fuori del comune. Evidentemente, Celestini ritiene di avere le carte in regola. Data la vastità degli elementi toccati, non si proverà qui nemmeno a impostare un abbozzo di discussione specifica su tali questioni. Lo spettacolo non racconta solo una vicenda di emarginazione, ma presenta una serie di considerazioni che si collocano precisamente sul piano della riflessione, o almeno di qualcosa che vorrebbe esserlo. Correttezza vorrebbe allora che le cose fossero presentate in modo critico. Qualunque riflessione critica presuppone però una presentazione aderente all'oggetto, ossia tale che chi professa un certo credo, dottrina, idea, vi si possa riconoscere. Solo su questa base può fondarsi efficacemente e veracemente la valutazione, anche negativa. Ora, nessun cristiano potrebbe riconoscere il proprio Credo nella stralunate considerazioni di Celestini. Esso vi appare francamente sfigurato. Quel che emerge è una caricatura della fede cristiana. Non si pretende che essa venga condivisa (qui ognuno fa legittimamente le sue scelte), ma che sia mostrata in modo veritiero, per quel che intende essere. Da ogni critica posso e devo trarre arricchimento, a condizione che mi si prenda sul serio. L'unico elemento che Celestini salva è la solidarietà, vero e unico miracolo possibile, quando qualcuno abbandona la propria finestra di spettatore e scende in strada a soccorrere un barbone malmenato. Siamo di fronte all'ennesima riduzione moralistica del mistero cristiano: tutto il complesso delle verità cristiane vien lasciato cadere (leggi canzonato), per affermare unicamente l'importanza della pratica. Il procedimento non è particolarmente originale, l'esito nemmeno. Proprio la unilaterale preminenza data all'elemento pratico può spiegare la superficialità con la quale tutto il resto è trattato. Certo, da un artista non ci attende necessariamente che sia filosofo o teologo (anche se i grandi lo sono). Ciò che a Celestini riesce meglio, è raccontare lo squallore di vite sciupate, emarginate. Qui si sente la realtà, la vita. Nel resto no. Il resto è noia.d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-60834851280351576202017-04-08T08:30:00.003+02:002017-04-08T08:30:53.823+02:00A cena con la morte per capire chi siamo"Tutti i miei fantasmi sono anche loro vita". Si può prendere questa affermazione, più volte ricorrente nello spettacolo, come punto di partenza per tracciare un possibile percorso di avvicinamento a questo teatro di parola, detta e proiettata (sullo schermo). Virtuosisticamente la parola vi salta e rimbalza, sprigionando mille riflessi e suggestioni, che possono forse in estrema sintesi esser detti così: per essere me stesso, ho bisogno di tutto me stesso. Appare qui la superficialità dello slogan universalmente ripetuto come indiscutibile mantra dei nostri tempi stolti: devo essere me stesso! Certo, se fosse facile sapere che cosa effettivamente io sia. Edi, la ragazzina protagonista, è l'io che si muove in mezzo a istanze diverse, che diversamente e contraddittoriamente la sollecitano a uscire da una quiete fatta di non-odio che è anche non-amore, nella quale riconosciamo tanti giovani (e non). Tali istanze paiono rappresentate negli altri personaggi - il padre, la madre, lo zio -, nei quali (in fretta e furia) possiamo rispettivamente vedere corpo, psiche e spirito. Cospicuo il ruolo dello zio, coscienza critica del gruppo, che indica come direzione il superamento del dualismo bad / good, e pone la centrale questione: cosa vuoi? che cosa veramente t'interessa? Evangelicamente: qual è il tuo tesoro, dove sta il tuo cuore? Sta qui il nodo e il mistero di ogni esistenza. Di passaggio: l'accenno al capitolo 7 del <i>Vangelo di Luca</i> e la "traduzione" di ciò che abitualmente vien detto "peccato" con "trauma" non convince. Luca parla di <i>hamartia</i>, ed è il classico vocabolo del peccato. Ch'esso sia anche trauma, è certo. Rimane però che nella Bibbia - e in essa nel Vangelo - è legato alla libertà umana, e dunque alla responsabilità: non semplicemente un male che proviene dall'esterno, ma che nasce dal cuore dell'uomo. Qui si risente di una spiritualità vagamente <i>New Age</i>, chiara soprattutto nel racconto che lo zio fa della sua esperienza fuori dal corpo (<i>obe</i>) in occasione di un incidente. Ad ogni buon conto, per uscire dalla sua piattezza Edi-io ha l'idea di creare un'occasione speciale, una cena luculliana alla quale invita gli altri tre, che si rivelerà a sorpresa una sfida con la morte. Dopo averla servita, rivelerà ai commensali di averli avvelenati. Il confronto con la morte produce uno scatto in avanti e nuove prese di coscienza. Che siano davvero stati avvelenati o meno in fondo poco importa: essenziale è piuttosto che tutto acquista autenticità proprio di fronte alla morte, la quale scompiglia la pseudo pace costruita sulla menzogna strutturale. Ma lo zio non si scompone: l'avvelenamento è un bluff. La cerimonia è finita: possiamo continuare a vivere, cercare, sperare. Con tutti i nostri fantasmi.<br />
<i>La Cerimonia</i>, di Oscar De Summa, con Oscar De Summa, Vanessa Korn, Marco Manfredi, Marina Occhionero. Produzione Teatro Metastasio di Prato. Prima assoluta. Teatro Fabbricone, Sala 2 (Fabbrichino), 24 marzo - 9 aprile 2017.<br />
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-42904088045037660242017-03-02T16:34:00.004+01:002017-03-02T16:34:37.174+01:00MDLSX: forte l'impatto, debole l'ideologiaGià dal punto di vista formale MDLSX è spettacolo inconsueto: un Dj/Vj Set, ossia la <i>performance</i> di un dj che presenta una serie di video e audio. Qui però la dj è attrice (la brava Silvia Calderoni) e mette in gioco (decisamente) il proprio corpo. C'è qui una prima triade: audio, video, corpo. Lo spettacolo ne cela poi una seconda, fatta di tre livelli. Il primo livello, il fondamentale, è la vicenda narrata in <i>Middlesex</i>, romanzo di J. Eugenides del 2002, del quale è protagonista una ragazza dai caratteri sessuali misti, ermafrodita. Tale vicenda è l'ossatura del discorso, come lo stesso titolo suggerisce: MDLSX è eco di <i>Middlesex</i>. Il secondo livello è la modalità di rappresentazione della vicenda <i>Middlesex</i>, potremmo dire il personale modo di sentire/interpretarla, che passa necessariamente attraverso il filtro personale, in questo caso dell'attrice/dj (che in alcuni video compare ragazzina). Il terzo livello è quello ideologico, con la proclamazione di teorie proprie del queer, l'ambito delle eccentricità sessuali, oltre e contro ogni definizione. Dall'incontro della doppia triade nasce uno spettacolo avvincente e provocante, che quasi obbliga il pubblico a avventurarsi per vie diverse (sicuramente dal punto di vista musicale per chi, come il sottoscritto, non ha dimestichezza alcuna col tipo di musica proposto). Vale la pena di fare lo sforzo, onde entrare per così dire dal di dentro in questioni che oggi suscitano discussioni e tensioni anche eccessive, e coglierne lo spessore esistenziale. Qui credo che il pregio stia in primo luogo nel romanzo, del quale vengono letti ampi stralci. Pure il livello dell'interpretazione, testimonianza di un'appassionata volontà di interazione - col testo da una parte, col pubblico dall'altra - merita attenzione. Quanto ai manifesti ideologici, sono la parte debole dello spettacolo. Non parlo del contenuto, quanto del fatto che sanno un po' di appiccicato, didascalico, a suo modo convenzionale. L'esperienza umana è sempre degna di attenzione, ed esige che ci si accosti ad essa come in punta di piedi. In questo senso il famoso "chi sono io per giudicare?" è esemplare. Qui i princìpi, tutti, devono per un attimo tacere e mettersi in ascolto. Quando l'espressione artistica diventa luogo di dichiarazioni teoriche, scade nella propaganda. Il livello della teoria, pur legittimo e anzi doveroso, non è quello dell'arte, che si propone piuttosto la rappresentazione - viva, efficace, eloquente e sconcertante - della vita, dalla quale semmai scaturisce l'intellezione, o almeno i suoi semi. A questo punto si dovrebbe proprio entrare nell'arena del dibattito che le questioni in gioco, sicuramente complesse, esigono. Ci fermiamo qui, paghi di aver colto ancora una volta la grandezza di questo microcosmo in cui si specchia il macrocosmo, questo magnifico universo che è l'essere umano: pianta e animale, maschio e femmina, corpo e spirito, terra e cielo.<br />
<i>MDLSX</i>, con Silvia Calderoni; regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò; drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni; produzione <i>Motus</i> 2015. <i>Teatro Fabbricone</i>, Prato, 23-26 febbraio 2017.d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-66056158084280596042017-02-24T08:05:00.001+01:002017-02-24T08:05:54.379+01:00La donna nella "Casa di Bambola""Quale bellezza! Ma non ha cervello". Con le celebri parole della volpe che trova una maschera teatrale abbandonata in campagna si potrebbe sintetizzare l'atteggiamento paternalista che la buona borghesia della Norvegia luterana di fine '800 assume nei confronti della donna. È il tema del celebre dramma di Ibsen, oramai un classico del teatro, reso con grande concentrazione e dedizione da Roberto Valerio che, oltre ad essere impegnato in scena, ne ha curato adattamento e regia. La "bambola" - potremmo dire la "pupa" - è Nora Helmer, alle prese col suo ruolo di figlia, sposa e madre. Già, perché la drammaticità degli eventi, che si consumano interamente in un ambiente quotidiano e borghese, l'ambito appunto della "casa", è il conflitto tra il ruolo e la persona, leggi sociali e spinte personali. Ibsen denuncia un approccio che, con parola abbastanza recente, diremmo "paternalistico": quell'atteggiamento benevolo e bonario col quale si fanno a un altro, per qualche verso inferiore, delle concessioni, considerandolo peraltro perennemente incapace di autoregolarsi onde perseguire il proprio bene in modo autonomo. Non per caso c'è di mezzo il "padre", che ha sempre trattato la figlia come un burattino. Emblematico il "gioco" che i due erano soliti fare: la figlia si immedesima nel padre e ne assume il pensiero. Tale oscuramento della persona proseguirà col marito e i figli (ma quest'ultima dimensione è solo accennata). In un primo tempo Nora si mostra abbondantemente integrata nel sistema e disposta a goderne fino in fondo i benefici. A scombinare tutto arriva però il demone Krogstad (che peraltro alla fine troverà redenzione grazie all'amore) col suo tentativo di ricatto, volto a salvare il proprio posto di lavoro. Nora è travolta. Dopo aver sognato "la meraviglia" di un marito che rimane fedele ai suoi principi anche a costo di rimetterci tutto, deve costatarne la pochezza: la sua rigidità morale cela in realtà un sostanziale egoismo (grande tema!). La dolorosa presa di coscienza ha il suo esito nella richiesta di rispetto e nella consapevolezza di dover uscire dalla gabbia per crescere in un processo di autoeducazione. In verità non sappiamo se questo avverrà: il finale è ambiguo. In effetti Ibsen apre soltanto il discorso, in una <i>pars destruens</i> che abbatte in modo sacrosanto una serie di dogmi borghesi (contro i quali oramai non sembra necessario accanirsi più di tanto), spesso - a torto - identificati con la visione cristiana. Il problema è naturalmente la <i>pars construens</i>, ovvero quale strada la donna debba prendere per ottenere rispetto e considerazione in quanto persona umana. Che la parola giusta sia proprio "auto-educazione"? È passato quasi un secolo e mezzo dalla creazione di Ibsen e molta strada è stata percorsa, al punto che oggi parlare della donna come sposa e madre è divenuto problematico, se non addirittura proibitivo. Ma davvero le bambole sono sparite?<br />
<div>
<i>Casa di Bambola</i>, di Henrik Ibsen. Adattamento e regia di Roberto Valerio. Produzione Associazione Teatrale Pistoiese, Centro di Produzione Teatrale. Prato, Teatro Metastasio, 16-19 febbraio 2017.</div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-80209831677905939122017-01-12T15:37:00.003+01:002017-01-12T15:38:24.080+01:00Il "Natale in casa Cupiello" di LatellaPer chi allestisce come per lo spettatore, questa commedia è difficile, per l'ovvio condizionamento costituito dalle celebri realizzazioni, teatrali e televisive, curate dal suo stesso autore. Latella è entrato gagliardamente nella mischia, sottoponendo il testo a un intenso lavorìo che ha dato esito a una rappresentazione originale, che probabilmente ha lasciato delusi, o almeno perplessi, quanti sono andati a teatro con il semplice intento di godersi una commedia alla quale sono affezionati. Se Eduardo scruta i suoi personaggi con sguardo bonario e indulgente, qui si ha una presa di distanza, l'azione appare quasi osservata e analizzata con una sorta di freddezza cerebrale.<br />
La messa in scena delimita con chiarezza le tre parti del dramma. Più propriamente "rappresentata", la parte centrale ne è anche il nucleo originario ed essenziale. La prima parte è proposta quasi come semplice lettura di un testo scritto per il teatro, comprese le didascalie, a sottolineare da un lato il testo teatrale come testo letterario e dall'altro l'intento di piena fedeltà: in effetti il dettato originale è pienamente mantenuto. La parte finale assume, curiosamente, i tratti dell'opera comica settecentesca, ove i personaggi del contorno appaiono in stridente contrasto col dramma, fisico e morale, del protagonista.<br />
Superfluo ribadire l'attualità di un testo scritto più di settant'anni fa, al centro del quale sta quel crocevia d'incontri e scontri che è da sempre la famiglia, con la quale ben si lega il tema del Natale, che ancor oggi un po' per tutti sa di famiglia. Non che vi sia un'attenzione alla dimensione religiosa del Natale: il presepe rappresenta qui un dato poetico e tradizionale, una certa immagine di mondo e famiglia, alla quale Lucariello intende tenacemente rimanere legato e che vuole trasmettere attorno e dietro a sé. Perché al cuore del dramma sta il problema, acuto oggi forse più di sempre, della tradizione: è possibile trasmettere alle nuove generazioni il "patrimonio" delle vecchie? Esso può essere conservato, oppure ci si deve rassegnare alla sua dissipazione? Possiamo consegnare nelle mani di qualcuno le cose che per noi sono state preziose? Il presepe è in fondo la narrazione concreta del mondo di Lucariello; il suo dramma è che il suo racconto non interessa a nessuno e non pare trovare nei figli se non flebile eco. Alla fine farà la "fine" di Gesù bambino - e qui mi pare sia una delle trovate più felici della drammaturgia -: il capezzale di Lucariello si trasforma nella culla del bambino Gesù. La conclusione pare aperta: i due mondi, quello del bambino-Lucariello e quello di tutti gli altri, non possono più incontrarsi? oppure in fondo da questa morte nascerà pur qualcosa? Molto dipende dal senso del flebile "sì" emesso dal figlio Tommasino che, dopo una serie di "no" al presepe, muta in extremis. Ma una sillaba non è troppo poco per reggere il peso della speranza?<br />
<i>Natale in casa Cupiello</i>, di Eduardo De Filippo; regia Antonio Latella, produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale. Prato, Teatro Metastasio, 5/8 gennaio 2017.d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-26927276616360393102016-11-11T14:35:00.001+01:002016-11-11T14:39:40.572+01:0016 novembre, Santa Geltrude (Gertrude) la Grande, vergine (memoria facoltativa) - ufficio delle lettureLa <i>Liturgia delle Ore</i> ci presenta una passo del <i>Legatus Divinae Pietatis</i>, "L'Araldo del Divino Amore", noto anche come "Rivelazioni di S. Gertrude", testo in cinque libri dei quali solo il secondo, dal quale è tratta la lettura, redatto nel 1289, è di mano di Gertrude. Il c. XXIII è un ringraziamento che presenta una sintesi dei favori da lei ricevuti.<br />
<br />
XXIII. <i>Gratiarum actio, cum expositione diversorum beneficiorum, quam cum orationibus tam praecedentibus quam subsequentibus statutis temporibus prout potuit devotius legere consuevit.</i><br />
<br />
1. Benedicat tibi anima mea, Domine Deus, Creator meus; benedicat tibi anima mea et ex medullis intimarum mearum confiteantur tibi miserationes tuae, quibus incontinentissima pietas tua tam indebite circumvenit me, [o dulcissime amator meus]. Gratias ago, ut undecumque possum, immensae misericordiae tuae, cum qua laudans glorifico longanimem patientiam tuam, qua dissimulasti, cum annos omnes infantiae et pueritiae, adulescentiae et iuventutis meae, usque pene ad finem vicesimi quinti anni tam caecata dementia pertransirem, ut cogitationibus, verbis et factis perficerem absque remorsione conscientiae, ut mihi nunc videtur, omne quod libebat, ubicumque licebat, non te praecavente, sive per naturaliter mihi insitam mali detestationem et boni delectationem, sive per exteriorem proximorum redargutionem, ac si pagana inter paganos vixissem, et numquam intellexissem quod tu, Deus meus, vel bonum remunerares, vel malum punires; cum tamen ab infantia, a quinto scilicet anno, me inter devotissimos amicos tuos in triclinio sanctae religionis tibi elegeris habilitari.<br />
<br />
3. Unde [in eadem commotione] pro emendatione offero tibi, Pater amantissime, omnem passionem tui dilectissimi Filii, ab illa hora quae in praesepio super foenum reclinatus vagitum dedit, et deinceps pertulit per infantiles necessitates, pueriles defectos, adulescentiles adversitates et iuveniles passiones, usque post horam illam qua, inclinato capite, in cruce cum clamore valido spiritum emisit. Item in suppletionem omnium negligentiarum mearum, offero tibi, Pater amantissime, omnem cogitationem illam sanctissimam, quae in omnibus cogitationibus, verbis et factis perfectissima ab hora qua missus ab arce throni introivit [per aurem virginis] in regionem nostram tuus Unigenitus, usque post illam horam qua tuis paternis vultibus praesentavit gloriam carnis victricis.<br />
<br />
5. Item pro gratiarum actione, in profundissimam abyssum humilitatis me demergens, cum superexcellenti misericordia tua simul collaudo et adoro illam dulcissimam benignitatem, qua, me sic deperdite vivente, tu Pater misericordiarum, cogitasti super me cogitationes pacis et non afflictionis, quomodo scilicet me sic multitudine et magnitudine beneficiorum tuorum exaltares.<br />
<br />
8. Addidisti etiam inter haec mihi inaestimabilem amicitiae familiaritatem impendere, diversis modis illam nobilissimam arcam divinitatis, scilicet deificatum Cor tuum praebendo in copiam omnium delectationum mearum.<br />
<br />
10. Insuper tam fidelibus promissionibus allexisti animam meam, qualiter mihi in morte et post mortem velles benefacere; quod iure etiam si nullum aliud donum haberem, pro hoc solo iugiter viva spe anhelaret ad te cor meum.<br />
<br />
Ecco la traduzione LO, con qualche annotazione:<br />
<br />
1. L'anima mia ti benedica, o Signore Dio, mio creatore: l'anima mia ti benedica e dall'intimo del mio cuore ti lodi la tua stessa misericordia, di cui il tuo amore infinito [1] mi ha circondato senza mio merito [2]. Ringrazio, come meglio sono capace, la tua immensa bontà e rendo gloria alla tua longanimità, alla tua pazienza e alla tua indulgenza [3]. Ho trascorso tutti gli anni della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia adolescenza e della mia gioventù fino all'età di venticinque anni come una cieca e una pazza. Parlavo e agivo secondo i miei capricci [4] e non sentivo alcun rimorso di questa mia condotta. Ne prendo coscienza solo ora. Non ti prestavo alcuna attenzione quando mi mettevi in guardia sui pericoli del mio comportamento o mediante una certa naturale avversione che sentivo verso il male, o attraverso le attrattive al bene che mi sollecitavano, o anche per mezzo dei rimproveri e delle riprensioni dei miei familiari. Vivevo come una pagana, che dimora fra i pagani, come una che mai avesse sentito dire che tu, mio Dio, ricompensi il bene e punisci il male. Ti ringrazio ancora che già dall'infanzia, esattamente fin dal quinto anno di età, mi hai scelta per farmi vivere fra i tuoi santi amici nell'ambito della santa religione.<br />
<br />
3. Perciò per la conversione [5] ti offro, o Padre amatissimo, tutta la passione del tuo dilettissimo Figlio a cominciare dal momento che, posato sopra la paglia nel presepio, emise il primo vagito e poi sopportò le necessità dell'infanzia, le privazioni dell'adolescenza [6], le sofferenze della gioventù fino a quando, chinata la testa, spirò sulla croce con un forte grido. Così pure, per supplire alle mie negligenze, ti offro, o Padre amatissimo, tutto lo svolgersi [7] della vita santissima che il tuo Unigenito condusse in modo perfettissimo nei suoi pensieri, nella parole e azioni dal momento in cui fu mandato dall'altezza del tuo trono sulla nostra terra [8], fino a quando presentò al tuo sguardo paterno la gloria della sua carne vittoriosa.<br />
<br />
5. In rendimento di grazie, mi immergo nel profondissimo abisso dell'umiltà e, assieme alla tua impagabile misericordia, lodo e adoro la tua dolcissima bontà. Tu, Padre della misericordia, mentre io sciupavo così la mia vita, hai nutrito a mio riguardo pensieri di pace e non di sventura, e hai deciso di sollevarmi così con la moltitudine e la grandezza dei tuoi benefici.<br />
<br />
8. Hai voluto anche, tra l'altro, concedermi l'inestimabile familiarità della tua amicizia con l'aprirmi i diversi modi quel nobilissimo scrigno della divinità, che é il tuo cuore divino e offrirmi in esso, in grande abbondanza, ogni tesoro di gioia.<br />
<br />
10. Hai attratto l'anima mia con la promessa sicura dei benefici che mi darai in morte e dopo la morte. Per cui anche se non avessi altro dono, per questo solo il mio cuore avrebbe ogni diritto di anelare a te con viva speranza.<br />
<br />
[1] <i>Incontinentissima pietas tua</i>: una misericordia "incontinente", che non è capace di trattenersi e trabocca.<br />
[2] Fa sorridere l'omissione in LO di <i>o dulcissime amator meus</i>: evidentemente è un po' troppo audace dire a Gesù: "mio dolcissimo amante"!<br />
[3] <i>Longanimem patientiam tuam, qua dissimulasti</i>: la paziente longanimità con la quale mi hai tollerato. <i>Dissimulo</i> è usato in senso assoluto: Dio ha fatto le viste di non sapere, di non vedere il peccato.<br />
[4] Secondo i miei capricci: la traduzione pare assai debole. Il latino è più forte e preciso: <i>ut cogitationibus, verbis et factis perficerem absque remorsione conscientiae, ut mihi nunc videtur, omne quod libebat, ubicumque licebat</i>, e cioè: in pensieri, parole e opere facevo senza rimorso di coscienza - lo vedo ora - tutto quello che mi piaceva, laddove era possibile.<br />
[5] P<i>ro emendatione</i>: più che per conversione, direi che si tratta di una offerta fatta per rimediare, per riparare e fare ammenda.<br />
[6] Qui il latino recita: <i>per infantiles necessitates, pueriles defectos, adulescentiles adversitates et iuveniles passiones</i>, ossia: le necessità dei neonati, i bisogni dei bambini, le difficoltà dei ragazzi, gli impeti dei giovani. Gertrude passa in rassegna tutte le fasi dello sviluppo. Intenderei le passiones giovanili (LO: sofferenze) come gli slanci propri di quell'età. A meno che si tratti dei problemi e delle fatiche della gioventù.<br />
[7] Più che di svolgimento, il latino parla di pensiero: <i>omnem cogitationem illam sanctissimam</i>, tutto quel santissimo pensiero. L'accento è posto sull'interiorità.<br />
[8] Qui LO omette <i>per aurem virginis</i>: il Verbo scende in terra attraverso l'orecchio della Vergine. Il tema è assai diffuso nella letteratura medievale: la fecondazione sarebbe avvenuta per insufflazione dello Spirito mediante le parole dell'arcangelo. Nella tradizione figurativa la si rappresenta come un cartiglio con le parole del saluto, che entra nell'orecchio di Maria (vedi p. es. la bellissima <i>Annunciazione</i> di Simone Martini e Lippo Memmi agli Uffizi, 1333).d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-38505817218675199292016-09-15T08:52:00.002+02:002016-09-15T08:52:25.407+02:00Esaltazione della S. Croce, ufficio delle lettureNel discorso I per la festa dell'Esaltazione della S. Croce di S. Andrea di Creta, si legge un passo che non risulta immediatamente perspicuo (PG 97, 1020D):<br />
Διὰ τοῦτο μέγα τι χρῆμα καὶ τίμιον ὁ σταυρός. Μέγα μὲν, ὅτι πολλὰ δι'αὐτὸν τῶν ἀγαθῶν κατωρθώθη, καὶ τοσούτῳ πολλὰ, ὅσῳ καὶ τὰ Χριστοῦ θαύματα καὶ παθήματα κατὰ παντὸς ἔχει λόγου τὰ νικητήρια.<br />
Il problema è come intendere κατὰ παντὸς ἔχει λόγου τὰ νικητήρια.<br />
<br />
<i>Gretser</i>-<i>Combefis</i>: Magna igitur et pretiosa res crux est. Magna quidem, quia multa per ipsam bona effecta sunt; et tanto plura quanto magis Christi miraculis et cruciatibus potiores partes tribuendae sunt.<br />
<i>LO</i>: È dunque la croce una risorsa veramente stupenda e impareggiabile, perché, per suo mezzo, abbiamo conseguito molti beni, tanto più numerosi quanto più grande ne è il merito, dovuto però in massima parte ai miracoli e alla passione del Cristo.<br />
<br />
Qui LO sembra dipendere dalla traduzione latina di PG (come probabilmente avviene spesso), ovviamente confondendo ulteriormente le idee rispetto a una traduzione giù fumosa. Io tradurrei così:<br />
<br />
Perciò la croce è un bene grande e prezioso. Grande, perché per suo mezzo abbiamo ricevuto doni tanto più immensi, quanto più anche i miracoli e le sofferenze di Cristo la vincono su ogni possibile discorso.<br />
<br />
Ciò che avviene sulla croce, la sofferenza e la morte del <i>Logos</i> incarnato, è un prodigio indicibile, che ἔχει τὰ νικητήρια - riporta vittoria, vince - κατὰ παντὸς λόγου - contro ogni discorso -. Per un modo di esprimersi simile si veda Gregorio di Nissa, <i>Encomium in XL martyres</i> II, PG 46, 776A.<br />
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-11010807548415319192016-09-07T07:45:00.002+02:002016-09-07T07:48:27.777+02:00Natività della B. V. Maria, ufficio delle lettureDi Andrea di Creta (per una breve nota biografica si veda <a href="http://granoezizzania.blogspot.it/2016/03/domenica-delle-palme-ufficio-delle.html">qui</a>) ci restano quattro omelie per la festa della Natività di Maria, che apre l'anno liturgico bizantino. LO ci propone alcuni passi della I (PG 97, 806-810): in quanto primo evento connesso direttamente con l'incarnazione, la nascita di Maria rappresenta una pietra di confine tra Antica e Nuova Alleanza, prefigurazione e realizzazione, legge e grazia, lettera e spirito.<br />
<br />
[…] Τέλος γὰρ νόμου, Χριστός· οὐ μᾶλλον ἡμᾶς ἀπάγων τοῦ γράμματος, ὅσον ἐπανάγων ἐπὶ τὸ πνεῦμα. Τοῦτο γὰρ ἠ τελείωσις, κατὰ αὐτὸς ὁ τοῦ νόμου δοτὴρ ἅπαντα συμπεράνας, ἐπὶ τὸ πνεῦμα τὸ γράμμα μετήνεγκεν, ἀνακεφαλαιώσας εἰς ἑαυτὸν τὰ πάντα, καὶ διαιτήσας νόμῳ τῇ χαριτι. Καὶ τὸν μὲν ὑποζεύξας, τὴν δὲ συνάψας ἐναρμονίως· οὐ φύρας τὰ θατέρου πρὸς θάτερον ἴδια, μετοχετεύσας δὲ καὶ λίαν θεοπρεπῶς, ἐπὶ τὸ κοῦφόν τε καὶ ἐλευθέριον ὅσον δυσαχθές τε καὶ δοῦλον, καὶ ὑποχείριον· ἵνα μηκέτι ὦμεν ὑπὸ τὰ στοιχεῖα τοῦ κόσμου δεδουλωμένοι, καθώς φησιν ὁ Ἀπόστολος, μηδὲ ζυγῷ δουλείας τοῦ νομικοῦ γράμματος ἐνεχώμεθα.<br />
Τοῦτο γὰρ τῶν περὶ ἡμᾶς εὐεργετημάτων Χριστοῦ τὸ κεφάλαιον. Τοῦτο ἡ τοῦ μυστηρίου φανέρωσις· τοῦτο ἠ κενωθεῖσα φύσις, Θεὸς καὶ ἄνθρωπος, καὶ ἡ τοῦ προσλήμματος θέωσις. Ἀλλὰ τῆς οὕτω λαμπρᾶς τε καὶ περιφανεστάτης Θεοῦ πρὸς ἀνθρώπους ἐπιδημίας, ἔδει τι πάντως εἶναι καὶ χαρᾶς ἐπεισόδιον, δι'οὗ τὸ μέγα τῆς σωτηρίας εἰς ἡμᾶς πρόεισι δῶρον. Τὸ δέ ἐστιν ἡ παροῦσα πανήγυρις, προοίμιον ἔχουσα τῆς Θεοτόκου τῆν γέννησιν· συμπέρασμα δὲ, τῆς τοῦ Λόγου πρὸς σάρκα συμπήξεως τὴν ἀπόταξιν.<br />
[…]<br />
Παρθένος γὰρ ἄρτι γεννᾶται καὶ τιθηνεῖται καὶ πλάττεται, καὶ τῷ Θεῷ τῷ παμβασιλεῖ τῶν αἰώνων ἑτοιμάζεται μήτηρ.<br />
[…]<br />
Ἐπεὶ καὶ διπλοῦν ἐντεῦθεν ἡμῖν προσέσται ποιουμένοις τὸ κέρδος· τὸ μέν τι πρὸς τὴν ἀλήθειαν ἡμᾶς ἐπανάγον, τὸ δέ τι τῆς νομικῆς ἐν γράμματι δουλείας καὶ πολιτείας ἀπάγον. Πῶς, καὶ τίνα τρόπον; Ὑποχωρούσης δηλαδὴ τῆς σκιᾶς τῇ τοῦ φωτὸς παρουσίᾳ, καὶ τὴν ἐλευθερίαν τοῦ γράμματος ἀντεισφερούσης τῆς χάριτος· ὧν ἡ παροῦσα πανήγυρις μεθόριος ἵσταται, τὴν ἀλήθειαν τῶν τυπικῶν συμβόλων ἀντιπαραζευγνῦσα, καὶ τὰ νέα τῶν παλαιῶν ἀντεισφέρουσα.<br />
[…]<br />
Πᾶσα τοίνυν ἡ κτίσις ὑμνείτω καὶ χορευέτω, καὶ συνεισφερέτω τι τῶν τῆς ἡμέρας ἐπάξιον. Γενέσθω μία κοινὴ σήμερον οὐρανίων καὶ ἐπιγείων πανήγυρις· καὶ συνεορταζέτω πᾶν ὅσον ἐγκόσμιόν τε καὶ ὑπερκόσμιον σύγκριμα. Σήμερον γὰρ τοῦ Παντοκτίστου τὸ κτιστὸν ᾠκοδόμηται τέμενος· καὶ τὸ κτίσμα, τῷ Κτίστῃ θεῖον ἐναύλισμα καινοπρεπῶς ἑτοιμάζεται.<br />
<br />
Ecco la traduzione che ne dà Vittorio Fazzo (Andrea di Creta, <i>Omelie mariane</i>, Città Nuova, Roma 1987, pp. 43-47). Per una migliore comprensione, riporto tra parentesi quadre alcune frasi omesse da LO:<br />
<br />
[La celebrazione odierna è per noi l'inizio delle feste: è la prima per quanto riguarda la Legge e l'ombra, ma in realtà è anche l'ingresso per quanto riguarda la grazia e la verità. Inoltre essa è anche centrale e finale, poiché essa contiene l'inizio — e cioè il passaggio della Legge -, la centralità — e cioè il collegamento degli estremi -, e la fine — e cioè la manifestazione della verità.]<br />
"Infatti, il termine della Legge è Cristo" (Rm 10,4), il quale ci allontana di tanto dalla lettera, di quanto ci innalza allo spirito: e questa è la perfezione, così come l'autore stesso della Legge, dopo aver compiuto tutte le cose, trasferì la lettera nello spirito avendo ricapitolato in se stesso tutte le cose ed essendosi posto ad arbitro della Legge con la grazia. Infatti pose la prima sotto il giogo congiungendovi armoniosamente la seconda, senza confondere la parte dell'una con quella dell'altra ma avendo incanalato meravigliosamente verso la leggerezza e la libertà ciò che era intollerabile, servile e assoggettato: affinché noi non fossimo più asserviti dalla schiavitù della lettera della Legge.<br />
Questo e il punto essenziale dei benefici di Cristo verso di noi, questa è la manifestazione dei misteri; questa e la natura <divina> spogliata, il Dio e l'uomo, e la divinizzazione di ciò che si era aggiunto. E tuttavia, malgrado ciò, del soggiorno di Dio tra gli uomini — cosi splendido e brillantissimo — era proprio necessario che almeno ci fosse anche un'introduzione di gioia, attraverso la quale il grande dono della salvezza si avanza verso di noi. E questa appunto è la celebrazione odierna, che ha come esordio la nascita della Madre di Dio e come conclusione il decisivo atto dell'unione del Verbo con la carne: quell'atto per il quale la portentosa notizia più meravigliosa tra tutte, invocata da sempre, rimane difficile a comprendere e a dimostrare, essendo manifesta quanto più si nasconde, nascosta quanto più si manifesta.</divina><br />
[In verità, questo giorno gradito a Dio, e il primo delle feste, portando sul capo la luce della verginità e come se raccogliesse una corona di illibati fiori dai pascoli spirituali della Scrittura, annuncia la gioia comune a tutta la creazione, dicendo: "Abbiate fiducia, la celebrazione è per un genetliaco ma è anche per la rigenerazione della stirpe umana.] Ora una vergine è generata, nutrita e plasmata, ed è preparata come Madre di Dio, universale re dei secoli".<br />
[...]<br />
Perciò ogni creatura elevi inni e intrecci danze, e apporti qualcosa di degno per questo giorno! Ci sia oggi una sola e comune celebrazione degli esseri celesti e di quelli terreni, e tutto quanto il concerto mondano e sopramondano festeggi insieme unito. Oggi è stato edificato il creato santuario del creatore di tutte le cose, e in modo straordinario la creatura è preparata al creatore come sua divina dimora.<br />
[La natura che prima era stata ridotta in terra oggi riceve l'inizio della divinizzazione, e la polvere si affretta a correre in alto verso la gloria suprema. Oggi Adamo, che presenta per noi a Dio la primizia proveniente da noi, gli offre Maria; e per mezzo di lei la primizia, che fra tutto l'impasto non ne era stata intrisa, diventa pane per la rigenerazione della stirpe.]<br />
<br />
Dal punto di vista testuale, fa difficoltà la frase iniziale: οὐ μᾶλλον ἡμᾶς ἀπάγων τοῦ γράμματος, ὅσον ἐπανάγων ἐπὶ τὸ πνεῦμα. Essa alla lettera suona: (Cristo) "non di più ci distoglie dalla lettera, di quanto ci riconduce allo spirito" o anche "non piuttosto ci distoglie dalla lettera, quanto ci riconduce allo spirito". La difficoltà è testimoniata dalle traduzioni:<br />
* Combefis (PG): <i>qui non minus abducat a lege, quam ad spiritum provehat</i><br />
* Fazzo: il quale ci allontana di tanto dalla lettera, di quanto ci innalza allo spirito<br />
* LO: Si degni egli di innalzarci verso lo spirito ancora più di quanto ci libera dalla lettera della legge (soliti voli di fantasia).<br />
Tralasciando la terza, troppo libera, le prime due traduzioni presuppongono l'eliminazione della negazione - o che οὐ sia espunto, o che sia corretto in οὗ (pronome relativo), e allora si riferirebbe alla legge, dalla cui lettera il Cristo distoglie, così: "(tanto) più ci distoglie dalla sua (=della legge) lettera, quanto ci riconduce allo spirito" -. In entrambi i casi il senso sarebbe: quanto più Cristo ci avvicina allo Spirito, tanto più ci distoglie dalla legge.<br />
A mio avviso, in attesa di una edizione critica, si può mantenere il testo attuale, traducendo però: "... il quale (Cristo) non ci distoglie tanto dalla lettera, quanto ci riconduce allo spirito". Il senso è che la lettera non viene abolita, ma trasfigurata nello spirito. In effetti, Andrea s'impegna subito dopo a mostrare il rapporto tra questi due poli: la legge rimane, sottomessa però alla grazia e da essa regolata. Perciò questo distoglimento non è abolizione, ma liberazione da ogni servile pesantezza. Di tale liberazione è primo bagliore la nascita della Vergine.d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-37305174818849056882016-07-31T10:29:00.002+02:002016-07-31T10:29:29.244+02:00Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario, ufficio delle lettureIn effetti la <i>Lettera di Barnaba</i> è uno scritto non facile, denso, anche oscuro. Pertanto la traduzione LO si preoccupa giustamente di chiarirlo... in modo che davvero non si capisca più nulla! Così si legge sul breviario:<br />
<br />
"Tre sono le grandi realtà rivelate dal Signore: la speranza della vita, inizio e fine della nostra fede; la salvezza, inizio e fine del piano di Dio; il suo desiderio di farci felici, pegno e promessa di tutti i suoi interventi salvifici." (1,6)<br />
<br />
Sfido chiunque a capirci qualcosa. Il greco dice:<br />
<br />
Τρία οὖν δόγματά ἐστιν κυρίου· ζωῆς ἐλπίς, ἀρχὴ καὶ τέλος πίστεως ἡμῶν, καὶ δικαιοσύνη, κρίσεως ἀρχὴ καὶ τέλος, ἀγάπη, εὐφροσύνης καὶ ἀγαλλιάσεως ἔργων ἐν δικαιοσύνῃ μαρτυρία.<br />
<br />
Così traduce Omero Soffritti (<i>La Lettera di Barnaba</i>, EP 1974, p. 68):<br />
<br />
"Ordunque, tre sono i principi del Signore: speranza di vita [è] inizio e fine della nostra fede; giustizia, inizio e fine di giudizio; amore di gioia e d'allegrezza (=amore gioioso), testimonianza di opere di giustizia."<br />
<br />
Lo stesso commentatore, morto proprio nel febbraio di quest'anno in età avanzata, illustra il passo così:<br />
<br />
"I tre «precetti del Signore» possono essere così spiegati: la «speranza di vita» è perfezione (= «principio e fine») di fede; la «giustizia» è perfezione di giudizio, cioè perfezione comprovata da giudizio; l'«amore gioioso e gaudioso» è testimonianza di opere di giustizia. Giustizia è concetto giudaico significante santità al cospetto di Dio; «opere di giustizia» sono opere giuste, in cui si dimostra e si comprova la giustizia. Wengst, pp. 11s., interpreta così: «Fondamento e scopo della fede è la speranza nella vita eterna; ciò che decide sulla partecipazione a questa vita e il giudizio, il cui criterio sarà la giustizia; testimone della giustizia che si manifesta nelle opere giuste e sulla quale avviene il giudizio, è l'amore... Ne risulta che fondamento della speranza è la giustizia... Essa è quindi per Barnaba il comportamento teologico fondamentale»" (<i>ibidem,</i> p. 69).d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-30769706155289487022016-07-26T10:32:00.002+02:002016-07-26T18:09:37.592+02:009 agosto, festa di Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, vergine e martire, compatrona d'Europa (1891-1942), ufficio delle letture<div class="MsoNormal">
Nel novembre del 1940 la Priora del Carmelo affida a sr.
Teresa Benedetta della Croce il compito di fare uno studio su S. Giovanni della Croce, per la ricorrenza del
400.mo della nascita del dottore carmelitano (1542). La Stein ci lavorò fino al
momento del suo arresto, il 2 agosto del 1942. Per tale motivo, lo scritto - <i>Kreuzeswissenschaft</i>.
<i>Studie über Joannes a Cruce</i>, in italiano conosciuto come <i>Scientia Crucis</i> - non
ebbe una revisione complessiva e può considerarsi relativamente incompiuto. Lo
studio su S. Giovanni della Croce è per lei occasione per continuare ad
approfondire la sua filosofia della persona, su ciò che significa "io,
libertà, persona". Al centro del libro sta il simbolo della croce, che
occupa un posto centrale nello stesso percorso esistenziale della Stein. Non per
caso il suo nome in religione era "della Croce": ella avrebbe
accettato la sofferenza e la morte come partecipazione alle sofferenze del
Cristo.</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La traduzione LO, tanto per cambiare, mi piace poco - anzi
punto. Ad esempio: "Cristo s'era addossato lui stesso il giogo della
legge, osservandola e adempiendola perfettamente, tanto da morire per la Legge
e vittima della Legge. Nello stesso tempo, tuttavia, Egli ha esonerati dalla
Legge tutti quelli che avrebbero accettata la vita da Lui". Qui si deve osservare
che 1. "esonerare" è una grave banalizzazione: Cristo ha liberato
dalla Legge, non solo esonerato da determinati precetti 2. tra la sottomissione
di Cristo alla Legge e la sua opera di liberazione non c'è opposizione
("tuttavia") ma coincidenza ("proprio facendo così ha liberato…")
3. il testo non stabilisce una successione temporale ("coloro che
avrebbero accettato") ma una contemporaneità, che è più forte e che non si
vede per qual motivo eliminare. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Pertanto offro una mia traduzione, insieme al testo
originale, premettendo un paragrafo che non c'è, che mi sembra meglio introdurre
il discorso. Due sole annotazioni: 1. i "giorni in cui era notte intorno a
lui, ma nella sua anima c'era luce", sono i momenti seguenti alla
conversione di Paolo, durante i quali egli rimase cieco (cf. At 9,9) 2. quando
scrive di una "guerra inesorabile contro la propria natura", si deve
aggiungere (mentalmente) "decaduta", come mostra il seguito: "per
far morire in essi la vita del peccato e fare spazio alla vita dello Spirito";
altrimenti ne risulta che la natura come tale è da combattere (il che è
erroneo).<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Dall'opera <i>Scientia Crucis</i> di santa Teresa Benedetta della
Croce, Edith Stein, vergine e martire.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
["In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge,
affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io,
ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nella carne, la vivo nella
fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me"
(Gal 2,19-20). In quei giorni in cui era notte intorno a lui, ma nella sua
anima c'era luce, lo zelatore della Legge ha riconosciuto che la Legge era
soltanto pedagogo nel cammino verso Cristo: poteva preparare a ricevere la
vita, non dare essa stessa la vita.] <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Cristo ha preso su di sé il giogo della Legge, portandola a
pieno compimento e morendo per - e in virtù di - essa. Proprio con questo ha
liberato dalla Legge coloro che vogliono ricevere la vita da lui. Essi però
possono riceverla soltanto in quanto abbandonano la propria vita. Perché
"quanti sono battezzati in Cristo, sono battezzati nella sua morte"
(Rm 6,3). Essi s'immergono nella sua vita per divenire membra del suo corpo, e
come tali con lui soffrire e con lui morire, ma anche con lui risuscitare alla
vita eterna, divina. Per noi questa vita arriverà nella sua pienezza solo nel
giorno della gloria. Però già ora - "nella carne" - ne partecipiamo,
nella misura in cui <i>crediamo</i>: crediamo che Cristo è morto per noi, per darci la
vita. È questa fede che ci fa uno con lui, come le membra e il capo, e ci apre
alla corrente della sua vita. Così, la fede nel Crocifisso - la fede viva,
accompagnata dal dono di sé nell'amore - costituisce per noi l'accesso alla
vita, e l'inizio della gloria futura. Perciò la croce è il nostro unico titolo
di gloria: "Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore
nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso,
come io per il mondo" (Gal 6,14). Chi ha deciso per Cristo è morto per il
mondo, e il mondo per lui. Egli porta le stigmate del Signore nel suo corpo
(Gal 6,17); è debole e disprezzato di fronte agli uomini, ma proprio per questo
forte, perché la potenza di Dio è forte nella debolezza (2Cor 12,9).
Consapevole di questo, il discepolo di Gesù non soltanto accoglie la croce
posta sulle sue spalle, ma si crocifigge egli stesso: "Quelli che sono di
Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi
desideri" (Gal 5,24). Essi hanno condotto una guerra inesorabile contro la
loro natura, per far morire in essi la vita del peccato e fare spazio alla vita
dello Spirito. Quest'ultima è quello che conta. La croce non è fine a se
stessa. Essa si erge e indica l'alto. Ebbene, non è solo segno: è la forte arma
di Cristo, il bastone del pastore col quale il divino Davide affronta
l'infernale Golia; col quale batte potentemente alle porte del cielo e le
spalanca. Allora sgorgano le correnti della luce divina, e avvolgono tutti
quelli che sono al seguito del Crocifisso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
[„Durch das Gesetz bin ich ... dem Gesetz abgestorben, damit
ich Gott lebe; ich bin mit Christus an das Kreuz geheftet. Ich lebe aber, doch
nicht mehr ich lebe, sondern Christus lebt in mir. Sofern ich aber jetzt im
Fleisch lebe, lebe ich im Glauben an den Sohn Gottes, der mich geliebt und sich
selbst für mich dahingegeben hat“ (Gal 2,19-20). In jenen Tagen, als es Nacht
war um ihn, aber licht wurde in seiner Seele, hat der Eiferer für das Gesetz
erkannt, daß das Gesetz nur Lehrmeister war auf dem Wege zu Christus. Es konnte
vorbereiten auf den Empfang des Lebens, aber selbst kein Leben geben.]<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Christus hat das Joch des Gesetzes auf sich genommen, indem
Er es vollkommen erfüllte und für und durch das Gesetz starb. Eben damit hat Er
die vom Gesetz befreit, die von Ihm das Leben empfangen wollen. Aber sie können
es nur empfangen, wenn sie ihr eigenes Leben preisgeben. Denn die auf Christus
getauft sind, sind auf Seinen Tod getauft (Rm 6,3-ss.). Sie tauchen unter in
Sein Leben, um Glieder Seines Leibes zu werden, als solche mit Ihm zu leiden und
mit Ihm zu sterben, aber auch mit Ihm aufzuerstehen zum ewigen, göttlichen
Leben. Dieses Leben wird in seiner Fülle für uns erst kommen am Tage der
Herrlichkeit. Wir haben aber jetzt schon – „im Fleisch“ – Anteil daran, sofern
wir <i style="mso-bidi-font-style: normal;">glauben</i>: glauben, daß Christus
für uns gestorben ist, um uns das Leben zu geben. Dieser Glaube ist es, der uns
mit Ihm eins werden läßt wie die Glieder mit dem Haupt und uns öffnet für das
Zuströmen Seines Lebens. So ist der Glaube an den Gekreuzigten – der lebendige
Glaube, der mit liebender Hingabe gepaart ist – für uns der Zugang zum Leben
und der Anfang der künftigen Herrlichkeit; darum das Kreuz unser einziger
Ruhmestitel: „Ferne sei es von mir, mich zu rühmen; außer im Kreuz unseres
Herrn Jesu Christus, durch den mir die Welt gekreuzigt ist und ich der Welt“
(Gal 6,14). Wer sich für Christus entschieden hat, der ist für die Welt tot,
und sie für ihn. Er trägt die Wundmale des Herrn an seinem Leibe (Gal 6,17),
ist schwach und verachtet vor den Menschen, aber gerade darum stark, weil in
den Schwachen Gottes Kraft mächtig ist (2Cor 12,9). In dieser Erkenntnis nimmt
der Jünger Jesu nicht nur das Kreuz an, das auf ihn gelegt ist, sondern
kreuzigt sich selbst: Die Christus angehören, haben ihr Fleisch gekreuzigt mit
seinen Lastern und Begierden (Gal 5,24). Sie haben einen unerbittlichen Kampf
geführt gegen ihre Natur, damit das Leben der Sünde in ihnen ersterbe und Raum
werde für das Leben des Geistes. Auf das Letzte kommt es an. Das Kreuz ist nicht Selbstzweck. Es ragt empor und weist
nach oben. Doch es ist nicht nur Zeichen - es ist die starke Waffe Christi; der
Hirtenstab, mit dem der göttliche David gegen den höllischen Goliath auszieht;
womit er machtvoll an das Himmelstor pocht und es aufstößt. Dann fluten die
Ströme des göttlichen Lichtes heraus und umfangen alle, die im Gefolge des
Gekreuzigten sind. </div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-9723002559610872016-05-12T17:59:00.001+02:002016-05-12T17:59:16.554+02:00SS. Trinità, ufficio delle lettureLe quattro epistole scritte durante il terzo esilio (356-362) da Atanasio a Serapione, vescovo di Thmuis (delta del Nilo), riguardano la dottrina dello Spirito Santo. Atanasio vi combatte l'idea (eretica) secondo la quale lo Spirito Santo è creatura, una sorta di primo Angelo. L'<i>epistola I</i> ha questa struttura:<br />
<br />
A prologo<br />
B1 confutazione dell'esegesi ereticale di alcuni passi della Scrittura<br />
B2 confutazione teologica delle posizioni ereticali<br />
C1 insegnamento della Scrittura sullo Spirito Santo<br />
C2 insegnamento della tradizione sullo Spirito Santo<br />
D epilogo.<br />
<br />
La lettura LO è tratta dalla sezione C2 (nn. 28-32), esposizione della dottrina teologica sullo Spirito Santo. Atanasio illustra la dottrina trinitaria, ove si tratta di tenere in equilibrio da un lato l'unità, per la quale tutto è ugualmente divino, unica l'operazione: la Trinità è "identica in se stessa e indivisibile nella natura, unica nella sua operazione" (ὁμοία δὲ ἑαυτῇ καὶ ἀδιαίρετός ἐστι τῇ φύσει καὶ μία ταύτης ἡ ἐνέργεια); dall'altro la distinzione, per la quale "il Padre opera ogni cosa per mezzo del Verbo nello Spirito Santo" (ὁ γὰρ πατὴρ διὰ τοῦ λόγου ἐν πνεύματι ἁγίῳ τὰ πάντα ποιεῖ). Se il Padre è la luce (φῶς), il Figlio è lo splendore (ἀπαύγασμα), lo Spirito l'illuminazione (ἐνέργεια καὶ αὐγοειδὴς χάρις, operazione e grazia luminosa).<br />
Nota che il testo greco (<i>Epistulae quattuor ad Serapionem</i>, K. Savvidis, <i>Athanasius</i>, <i>Werke</i>, Band I. <i>Die dogmatischen Schriften</i>, Erster Teil, 4. Lieferung, Berlin - New York, De Gruyter 2010, pp. 593-601) e quello italiano (trad. E. Cattaneo, <i>Lettere a Serapione</i>, Roma, Città Nuova 1986, pp. 94-99, basata sul testo PG) non hanno la stessa numerazione dei paragrafi interni ai capitoli.<br />
<br />
Dalle <i>Lettere</i> di sant'Atanasio, vescovo (Lett. 1 a Serapione, 28-30)<br />
<br />
28.1. Vediamo tuttavia oltre a ciò anche la stessa tradizione, dottrina e fede che la Chiesa cattolica ha avuto fin dall'inizio, quella che il Signore ha consegnato, che gli Apostoli hanno predicato e che i Padri (*) hanno custodito. Su di essa infatti la Chiesa è stata fondata, e chi ne esce fuori non potrebbe più né essere né dirsi cristiano.<br />
2. Pertanto la Trinità è santa e perfetta, riconosciuta Dio nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Essa non è mescolata con nulla di estraneo o estrinseco; non consta di Creatore e realtà prodotta, ma tutta intera crea e produce. È identica in se stessa, indivisibile nella natura, unica nella sua operazione. Il Padre infatti opera ogni cosa per mezzo del Verbo nello Spirito Santo, e cosi è mantenuta l'unità della Santa Trinità. Pertanto nella Chiesa si predica un solo Dio che è sopra tutti, attraverso tutti e in tutti. È sopra tutti come Padre, principio e fonte; attraverso tutti per mezzo del Verbo; in tutti nello Spirito Santo.<br />
(...)<br />
30.4. [Se invece, secondo la trovata di voi «sconnessi» (**) non è cosi, ma vi siete sognati di dire che lo Spirito Santo è creatura, allora la vostra fede non è più «una», e il vostro battesimo non è «uno», ma due: uno nel Padre e nel Figlio, l'altro in un angelo che è creatura, per cui tra voi nulla più è sicuro e vero.<br />
5. Quale comunanza vi è infatti tra la creatura e il Creatore? Quale unità tra le cose create di quaggiù e il Verbo che le ha fatte?] Il beato Paolo, che sapeva bene ciò, non separa la Trinità, come voi fate; volendo invece insegnare l'unità di essa, ha scritto ai Corinzi sui doni spirituali, e ricapitola ogni cosa riconducendola all'unico Dio e Padre dicendo: "Vi sono diversità di carismi, ma lo Spirito è lo stesso; vi sono diversità di ministeri, ma il Signore è lo stesso; vi sono diversità di operazioni, ma Dio è lo stesso che opera tutto in tutti" (1Cor 12,6).<br />
6. Ciò infatti che lo Spirito distribuisce a ciascuno in dono, proviene dal Padre mediante il Verbo. Poiché tutto ciò che è del Padre, appartiene al Figlio, per cui i carismi elargiti dal Figlio nello Spirito sono del Padre.<br />
7. Inoltre, se lo Spirito è in noi, anche il Verbo, datore di esso, è in noi, e nel Verbo vi è il Padre; e cosi si verifica il passo: "Io e il Padre verremo e faremo dimora presso di lui" (Gv 14,23), come è stato detto. Dove infatti c'è la luce, lì vi è pure lo splendore; e dove vi è splendore, lì vi è anche la sua operazione e la sua grazia luminosa.<br />
8. Insegnando ancora ciò, Paolo scriveva di nuovo ai Corinzi nella Seconda Lettera: "La grazia del Signore nostro Gesù Cristo e l'amore di Dio e la partecipazione dello Spirito Santo (sia) con tutti voi" (2Cor 13,13). Infatti la grazia data e il dono sono dati nella Trinità, dal Padre mediante il Figlio nello Spirito Santo. Come infatti la grazia data ha origine dal Padre e passa per il Figlio, cosi non ci potrebbe essere partecipazione di questo dono in noi se non nello Spirito Santo. Poiché solo partecipando di lui abbiamo l'amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunicazione dello stesso Spirito.<br />
31.1. [Anche da ciò dunque appare che l'operazione della Trinità è unica. Infatti l'Apostolo non vuol dire che ciascuno (dei Tre) dà doni diversi e separati, ma che i doni vengono dati nella Trinità e che tutto ha origine dall'unico Dio.]<br />
<br />
28. (1) Ἴδωμεν δὲ ὅμως καὶ πρὸς τούτοις καὶ αὐτὴν τὴν ἐξ ἀρχῆς παράδοσιν καὶ διδασκαλίαν καὶ πίστιν τῆς καθολικῆς ἐκκλησίας, ἣν ὁ μὲν κύριος ἔδωκεν, οἱ δὲ ἀπόστολοι ἐκήρυξαν καὶ οἱ πατέρες ἐφύλαξαν. ἐν ταύτῃ γὰρ ἡ ἐκκλησία τεθεμελίωται καὶ ὁ ταύτης ἐκπίπτων οὔτ’ ἂν εἴη οὔτ’ ἂν ἔτι λέγοιτο Χριστιανός. (2) τριὰς τοίνυν ἁγία καὶ τελεία ἐστίν, ἐν πατρὶ καὶ υἱῷ καὶ ἁγίῳ πνεύματι θεολογουμένη, οὐδὲν ἀλλότριον ἢ ἔξωθεν ἐπιμιγνύμενον ἔχουσα οὐδὲ ἐκ δημιουργοῦ καὶ γενητοῦ συνισταμένη, ἀλλ’ὅλη τοῦ κτίζειν καὶ δημιουργεῖν οὖσα. ὁμοία δὲ ἑαυτῇ καὶ ἀδιαίρετός ἐστι τῇ φύσει καὶ μία ταύτης ἡ ἐνέργεια. (3) ὁ γὰρ πατὴρ διὰ τοῦ λόγου ἐν πνεύματι ἁγίῳ τὰ πάντα ποιεῖ, καὶ οὕτως ἡ ἑνότης τῆς ἁγίας τριάδος σώζεται, καὶ οὕτως εἷς θεὸς ἐν τῇ ἐκκλησίᾳ κηρύττεται· «ὁ ἐπὶ πάντων καὶ διὰ πάντων καὶ ἐν πᾶσιν». «ἐπὶ πάντων» μὲν ὡς πατήρ, ὡς ἀρχὴ καὶ πηγή, «διὰ πάντων» δὲ διὰ τοῦ λόγου, «ἐν πᾶσι» δὲ ἐν τῷ πνεύματι τῷ ἁγίῳ.<br />
(...)<br />
30. (3) [εἰ δὲ κατὰ τὴν ὑμῶν τῶν Τροπικῶν ἐπεξεύρεσιν οὐχ οὕτως ἐστίν, ἀλλ’ ἐνυπνιάσθητε κτίσμα λέγειν τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον, οὐκέτι μία πίστις ἐστὶν ὑμῶν οὐδὲ ἓν βάπτισμα, ἀλλὰ δύο· ἓν μὲν εἰς πατέρα καὶ υἱόν, ἕτερον δὲ εἰς ἄγγελον κτίσμα ὄντα. καὶ οὐδὲν λοιπὸν ὑμῶν ἀσφαλὲς οὐδὲ ἀληθές. ποία γὰρ κοινωνία γενητῷ καὶ δημιουργῷ; ἢ ποία ἑνότης τοῖς κάτω κτίσμασι καὶ τῷ ταῦτα δημιουργήσαντι λόγῳ;] (4) τοῦτο εἰδὼς ὁ μακάριος Παῦλος οὐ διαιρεῖ τὴν τριάδα ὥσπερ ὑμεῖς, ἀλλὰ τὴν ἑνότητα ταύτης διδάσκων ἔγραφε Κορινθίοις περὶ τῶν πνευματικῶν καὶ τὰ πάντα εἰς ἕνα θεὸν τὸν πατέρα ἀνακεφαλαιοῖ λέγων· «διαιρέσεις δὲ χαρισμάτων εἰσί, τὸ δὲ αὐτὸ πνεῦμα· καὶ διαιρέσεις διακονιῶν εἰσίν, ὁ δὲ αὐτὸς κύριος· καὶ διαιρέσεις ἐνεργημάτων εἰσίν, ὁ δὲ αὐτὸς θεὸς ὁ ἐνεργῶν τὰ πάντα ἐν πᾶσιν». ἃ γὰρ τὸ πνεῦμα ἑκάστῳ διαιρεῖ, ταῦτα παρὰ τοῦ πατρὸς διὰ τοῦ λόγου χορηγεῖται. πάντα γὰρ τὰ τοῦ πατρὸς τοῦ υἱοῦ ἐστι. διὸ καὶ τὰ παρὰ τοῦ υἱοῦ ἐν πνεύματι διδόμενα τοῦ πατρός ἐστι χαρίσματα. (5) καὶ τοῦ πνεύματος δὲ ὄντος ἐν ἡμῖν καὶ ὁ λόγος ὁ τοῦτο διδούς ἐστιν ἐν ἡμῖν καὶ ἐν τῷ λόγῳ ἐστὶν ὁ πατήρ, καὶ οὕτως ἐστὶ τὸ «ἐλευσόμεθα ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ καὶ μονὴν παρ’ αὐτῷ ποιήσομεν» καθάπερ εἴρηται. ἔνθα γὰρ τὸ φῶς, ἐκεῖ καὶ τὸ ἀπαύγασμα. καὶ ἔνθα τὸ ἀπαύγασμα, ἐκεῖ καὶ ἡ τούτου ἐνέργεια καὶ αὐγοειδὴς χάρις. (6) καὶ τοῦτο πάλιν διδάσκων ὁ Παῦλος ἔγραφεν αὖθις Κορινθίοις καὶ ἐν τῇ δευτέρᾳ ἐπιστολῇ λέγων· «ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν». ἡ γὰρ διδομένη χάρις καὶ δωρεὰ ἐν τριάδι δίδοται παρὰ τοῦ πατρὸς δι’ υἱοῦ ἐν πνεύματι ἁγίῳ. (7) ὥσπερ γὰρ ἐκ τοῦ πατρός ἐστι δι’ υἱοῦ ἡ διδομένη χάρις, οὕτως οὐκ ἂν γένοιτο κοινωνία τῆς δόσεως ἐν ἡμῖν εἰ μὴ ἐν τῷ πνεύματι τῷ ἁγίῳ. τούτου γὰρ μετέχοντες ἔχομεν τοῦ πατρὸς τὴν ἀγάπην καὶ τοῦ υἱοῦ τὴν χάριν καὶ αὐτοῦ τοῦ πνεύματος τὴν κοινωνίαν.<br />
[31. (1) Μία ἄρα καὶ ἐκ τούτων ἡ τῆς τριάδος ἐνέργεια δείκνυται. οὐ γὰρ ὡς παρ’ ἑκάστου διάφορα καὶ διῃρημένα τὰ διδόμενα σημαίνει ὁ ἀπόστολος, ἀλλ’ ὅτι τὰ διδόμενα ἐν τριάδι δίδοται καὶ τὰ πάντα ἐξ ἑνὸς θεοῦ ἐστι.]<br />
<br />
(*) Si tratta dei padri conciliari di Nicea.<br />
(**) Atanasio chiama i suoi avversari, con espressione non chiara, τροπικόι (<i>tropikoi</i>). Tenendo conto dei significati di τρόπος / τροπή (<i>tropos</i> / <i>trope</i>), essa potrebbe significare che questa gente 1. è volubile 2. si esprime in modo stilisticamente elaborato 3. si esprime con metafore 4. segue procedimenti logici. Cattaneo opta per l'ultima opzione: Atanasio si riferirebbe in modo ironico ai suoi avversari, che pretendono di essere logici ma sono in realtà squinternati. Aggiungo che, in tal caso, Atanasio userebbe a sua volta un tropo, cioè una figura retorica, l'ironia, nella quale si dice il contrario di quel che si vuole in realtà affermare (ma il traduttore l'ha a sua volta posta in chiaro).<br />
<div>
<br /></div>
d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4751197788625113853.post-52035212025451138152016-05-08T06:53:00.001+02:002016-05-08T06:53:35.861+02:00Pentecoste, ufficio delle lettureA partire dal c. 16 del libro III del suo ponderoso tomo antignostico «<i>Contro le eresie</i>», scritto in greco ma arrivato a noi per la maggior parte in traduzione latina, Ireneo espone la sua cristologia. Per gli gnostici, il Cristo non va identificato con Gesù: egli è un essere (<i>eone</i>) celeste rivelatore che, disceso su Gesù, ha abitato temporaneamente in lui. Si tratta di un'idea ripresa anche da correnti esoteriche e neognostiche moderne. Una citazione per tutte, dal maestro spirituale di origine macedone Omraam Mikhaël Aïvanhov (1900-1986): «Il Cristo, che è il secondo aspetto di Dio stesso, non ha mai preso sembianze fisiche. Egli entra semplicemente nelle anime e negli spiriti che sono pronti a riceverlo e a fondersi in Lui. Gesù, dunque, come tutti gli altri grandi maestri dell'umanità e i fondatori di religioni, dovette percorrere un lungo cammino prima che quello spirito discendesse in lui. Se è stato chiamato "Gesù Cristo", non è perché egli "era il Cristo", bensì perché "ha ricevuto il Cristo". Si può dire che Gesù era Dio, ma in questo senso, che anche voi, io, gli animali, gli alberi, le pietre, le stelle, siamo Dio. Essendo tutto ciò che esiste scaturito dalla sostanza divina, in questo senso tutto è Dio. L'unica differenza sta nella coscienza, e Gesù aveva la più elevata coscienza della presenza di Dio in sé. È dunque questa consapevolezza che noi dobbiamo sviluppare, fino a fonderci nella Divinità per poter dire un giorno come Gesù: "il Padre e io siamo una cosa sola"». Ireneo afferma invece che è lo Spirito Santo ad essere sceso su Gesù, onde poi essere da lui effuso sull'umanità. Come si vede, le due prospettive sono molto diverse.<br />
<br />
Dal trattato <i>Contro le eresie</i> di sant'Ireneo, vescovo (III,17,1-3; SC 34,302-306)<br />
<br />
17.1. (...) Ancora, conferendo ai discepoli il potere della rigenerazione a Dio, il Signore diceva loro: "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). Questo Spirito aveva promesso di effondere negli ultimi tempi sui suoi servi e le sue serve, perché fossero profeti (cf. Gl 3,1-2; At 2,17-18). Perciò discese anche sul Figlio di Dio fatto Figlio dell'uomo: si abituava a dimorare nell'umanità, a riposare negli uomini e ad abitare nella creatura di Dio, operando la volontà del Padre in essi e rinnovandoli dalla vetustà alla novità di Cristo.<br />
2. [Questo Spirito chiedeva Davide per l'umanità, quando diceva: "rafforzami con lo Spirito reggitore" (Sal 51,14; CEI: "sostienimi con uno spirito generoso").] Luca dice che dopo l'assunzione del Signore lo Spirito è disceso sui discepoli a Pentecoste, con il potere di introdurre tutti i popoli nella vita e aprir loro la nuova alleanza. Perciò in tutte le lingue e in piena unità inneggiavano a Dio, mentre lo Spirito riconduceva al'unità le tribù disperse e offriva al Padre le primizie di tutti i popoli. Perciò anche il Signore promise che avrebbe mandato il Paraclito, che ci doveva mettere in armonia con Dio. Come infatti dalla farina asciutta non può farsi senza acqua un solo impasto e un solo pane, neppure noi, molti, potevamo potevamo divenire uno in Cristo Gesù senza l'acqua dall'alto. E come la terra arida se non riceve umidità non fruttifica, così anche noi, già legno secco (cf. Lc 23,31), mai avremmo portato frutto di vita senza il dono di quella pioggia (cf. Sal 68,10). Il nostro corpo ha ricevuto l'unione all'incorruttibilità mediante il lavacro, l'anima mediante lo Spirito. (...la Samaritana e l'acqua)<br />
3. (...Gedeone e la rugiada sul vello) ...che è lo Spirito di Dio disceso sul Signore, "Spirito di sapienza e intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di scienza e di pietà, Spirito di timore di Dio" (Is 11,2-3 LXX), a sua volta da lui donato alla Chiesa, mandato dal cielo il Paraclito su tutta la terra dove, dice il Signore, anche il diavolo è stato gettato come una folgore (cf. Lc 10,18). Pertanto anche a noi è necessaria la rugiada divina, per non essere bruciati né infecondi, e perché dove abbiamo un accusatore, lì abbiamo anche un Paraclito. Il Signore ha affidato allo Spirito Santo la sua creatura umana incappata nei briganti, della quale ha avuto compassione e fasciato le ferite, sborsando poi due denari regali (cf. Lc 10,30-35), cosicché, ricevendo mediante lo Spirito l'immagine e l'iscrizione del Padre e del Figlio, facessimo fruttificare il denaro affidatoci e lo riconsegnassimo al Signore moltiplicato.<br />
<br />
17.1. (...) Et iterum potestatem regenerationis in Deum dans discipulis dicebat eis: Euntes docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti. Hunc enim promisit per prophetas effundere se in novissimis temporibus super servos et ancillas ut prophetent; unde et in Filium Dei Filium hominis factum descendit, cum ipso adsuescens habitare in genere humano et requiescere in hominibus et habitare in plasmate Dei, voluntatem Patris operans in ipsis et renovans eos a vetustate in novitatem Christi.<br />
2. Hunc Spiritum [petiit David humano generi dicens: Et Spiritu principali confirma me. Quem et] descendisse Lucas ait post ascensum Domini super discipulos in Pentecoste, habentem potestatem omnium gentium ad introitum vitae et adapertionem novi Testamenti; unde et omnibus linguis conspirantes hymnum dicebant Deo, Spiritu ad unitatem redigente distantes tribus et primitias omnium gentium offerente Patri. Unde et Dominus pollicitus est mittere se Paraclitum, qui nos aptaret Deo. Sicut enim de arido tritico massa una fieri non potest sine humore neque unus panis, ita nec nos multi unum fieri in Christo Iesu poteramus sine aqua quae de caelo est. Et sicut arida terra, si non percipiat humorem, non fructificat, sic et nos, lignum aridum exsistentes primum, numquam fructificaremus vitam sine superna voluntaria pluvia. Corpora enim nostra per lavacrum illam quae est ad incorruptionem unitatem acceperunt, animae autem per Spiritum. [Unde et utraque necessaria, cum utraque proficiunt in vitam Dei, miserante Domino nostro Samaritanae illi praevaricatrici, quae in uno viro non mansit, sed fornicata est in<br />
multis nuptiis, et ostendente ei et pollicente aquam vivam, ut ulterius non sitiret neque occuparetur ad humectationem aquae laboriosae, habens in se potum saliens in vitam aeternam, quod Dominus accipiens munus a Patre ipse quoque his donavit qui ex ipso participantur, in universam terram mittens Spiritum sanctum.<br />
3. Hanc muneris gratiam praevidens Gedeon ille Israelita, quem elegit Deus ut salvaret populum Israel de potentatu alienigenarum, demutavit petitionem, et super<br />
vellus lanae in quod tantum primum ros fuerat, quod erat typus populi, ariditatem futuram prophetans, hoc est non iam habituros eos a Deo Spiritum sanctum, sicut Esaias ait: Et nubibus mandabo ne pluant super eam in omni autem terra fieri ros, quod est] Spiritus Dei, qui descendit in Dominum, Spiritus sapientiae et intellectus, Spiritus consilii et virtutis, Spiritus scientiae et pietatis, Spiritus timoris Dei, quem ipsum iterum dedit Ecclesiae, in omnem terram mittens de caelis Paraclitum, ubi et diabolum tamquam fulgur proiectum ait Dominus. Quapropter necessarius nobis est ros Dei ut non comburamur neque infructuosi efficiamur, et ubi accusatorem habemus illic habeamus et Paraclitum, commendante Domino Spiritui sancto suum hominem qui inciderat in latrones, cui ipse misertus est et ligavit vulnera eius, dans duo denaria regalia ut, per Spiritum imaginem et inscriptionem Patris et Filii accipientes, fructificemus creditum nobis denarium, multiplicatum Domino adnumerantes.<br />
<br />
<b>*</b> Al n. 2 Ireneo fa riferimento alla <i>pluvia voluntaria</i> (LXX: βροχὴν ἑκούσιον) di <i>Sal</i> 68 (67),10 - trad. CEI 2008 «pioggia abbondante», NR 2006 «pioggia benefica» -. LO traduce giustamente «pioggia mandata liberamente dall'alto», come puro dono. Subito dopo Ireneo aggiunge: «Il nostro corpo ha ricevuto l'unione all'incorruttibilità mediante il lavacro, l'anima mediante lo Spirito». L'espressione, a quanto pare, è risultata difficile o ambigua, e LO parafrasa: «Il lavacro battesimale con l'azione dello Spirito Santo ci ha unificati tutti nell'anima e nel corpo in quell'unità che preserva dalla morte». Ma è chiaro che Ireneo non intende separare acqua sacramentale e Spirito, corpo e anima, bensì sottolineare il parallelismo acqua/corpo - anima/Spirito: il sacramento è necessario per la salvezza dell'intero essere umano. Dalla parafrasi LO risulta l'idea, assente nel testo, che il sacramento «unifica» anima e corpo.<br />
<b>*</b> Al n. 3 la traduzione LO lascia molto a desiderare: «...mandando dal cielo il Paraclito su tutta la terra, da dove, come disse egli stesso, il diavolo fu cacciato come folgore cadente». Sembra che il diavolo sia stato cacciato dalla terra, mentre Ireneo afferma che è stato cacciato dal cielo e gettato sulla terra (cf. Ap 12,9-12), dove viene per l'appunto inviato lo Spirito Santo perché laddove c'è l'accusatore ci sia anche il difensore.d. Marcohttp://www.blogger.com/profile/06548100419554160689noreply@blogger.com0